Presentazione libro sull’Arcivescovo di Palermo G.B. Naselli

Grazie all’amico Nicolò Lentini, che mi ha onorato di presentare la sua monografia su un personaggio storico poco conosciuto, e piuttosto controverso: Giovan Battista Naselli, Arcivescovo di Palermo dal 1853 al 1870, cioè in un momento cruciale per la storia di Sicilia.

Di seguito la mia relazione, buona lettura

Ho letto tutta d’un fiato, e con grande interesse, la monografia dell’amico Nicolò Lentini, e l’ho letta non – come si potrebbe immaginare – per conoscere un nuovo punto di vista su una storia già nota, bensì proprio per apprendere. Sulla figura dell’Arcivescovo Naselli avevo un vero e proprio vuoto di conoscenza.

A cosa è dovuto questo vuoto? Al fatto che gli eventi cruciali degli anni di metà secolo che cambiarono la storia di Sicilia la “Chiesa” è presentata sempre come istituzione, o come corpo collettivo, il “clero”, ma i singoli personaggi difficilmente emergono con la loro personalità.

A differenza dell’arcivescovo di Monreale, D’Acquisto, a torto o ragione considerato uno dei protagonisti della Rivolta del “Sette e Mezzo”, Naselli sembra quasi un personaggio grigio, sfumato dietro l’istituzione che rappresentava.

Con lui parla non G.B Naselli, ma … l’Arcivescovo di Palermo in quanto tale.

Fu anche accusato di essere talvolta irresoluto, debole, solo perché non fu partigiano sfegatato del partito liberale o del partito clericale (mi siano consentite queste semplificazioni), ovvero perché non fu né fervente unitario, né legittimista, né indipendentista.

Ma è lecito un giudizio così sommario? È molto facile, 50, 100 o 150 anni dopo dare tranquilli giudizi storici senza appello, ma il giudizio deve essere sincronico. Cosa avremmo fatto noi al suo posto? Abbiamo idea della delicatezza del momento in cui gli toccò la guida della grande arcidiocesi siciliana? E, soprattutto, abbiamo idea di quali conseguenze nefaste avrebbe avuto per la comunità di fede da lui diretta una scelta come quelle che i suoi detrattori postumi invocano come la più corretta?

Naselli viene fatto Arcivescovo all’età in cui normalmente si va in pensione. Dopo tanti anni passati a dirigere l’Oratorio di San Filippo Neri, di buona famiglia aristocratica siciliana, forse pensava, negli anni ’50 del XIX secolo che la sua vicenda ecclesiale si sarebbe chiusa così. E invece fu strappato da questa vita relativamente tranquilla, abbracciata sin da giovane, per essere dapprima spedito a Noto, dove si distinse per l’organizzazione della giovane diocesi, e poi – poco dopo – fatto ritornare a Palermo per ricoprire la carica più alta dell’episcopato siciliano.

Si trova lì per pacificare gli animi in una Sicilia ancora segnata dalla Rivoluzione indipendentista del 1848. Il governo napoletano sembrava aver capito la lezione. La Sicilia dell’ultimo decennio borbonico, a parte la repressione poliziesca, sempre più asfissiante e la mancanza di ogni forma di autogoverno e di libertà, era diventata in pratica uno stato a sé. Il decentramento amministrativo, per tacitare l’indomita coscienza nazionale dei Siciliani, era stato spinto al massimo: istituto di emissione proprio, polizia propria, finanze proprie, magistratura propria, uno stato nello stato. In questo quadro Naselli, in sostituzione del predecessore napoletano, era quel presule “siciliano” che l’opinione pubblica si aspettava.

Ma la frattura tra Napoli e Sicilia era tutt’altro che sanata, e le élite siciliane, disperando ormai di potersi liberare da sole, si convertirono ai Savoia e all’Unità d’Italia.

Naselli dovette gestire, e fu in qualche modo partecipe, di questa conversione. Dovette gestire gli ultimi giorni della luogotenenza borbonica, poi la dittatura garibaldina, poi le prodittature con tutte le loro convulse fasi politiche, poi l’annessione, e soprattutto dovette gestire il primo decennio unitario, con la Legge Pica e due stati d’assedio, e diversi amministratori militari della Sicilia, una Sicilia che, dopo le I elezioni politiche, passa definitivamente all’opposizione.

Uomo del Settecento, legato ad incrostazioni storiche come il dominio temporale dei papi, il destino non volle che vivesse i tempi nuovi. Non vide, per pochissimo, la breccia di Porta Pia, né la revoca definitiva dell’Apostolica Legazia (nel 1871), istituto che accompagnava la Sicilia da otto secoli, ma che, aggiungendosi all’autocefalia decretata dall’Imperatore Eraclio, aveva accompagnato una chiesa siciliana autonoma per 1100 anni circa. Tutto questo lui, uomo del passato, non avrebbe dovuto viverlo, e non lo visse. Sarebbe toccato al suo successore Celesia, che scrisse un’altra storia, già molto più simile a quella odierna.

Certo, anche volendolo giustificare, non possiamo nascondere qualche limite del personaggio. L’attaccamento al potere temporale, all’”unico impero che non crolla mentre gli altri principati umani vanno e vengono”, non gli fa troppo onore. Il vero “impero” della Chiesa, infatti, non è il piccolo “Patrimonium Sancti Petri” o l’attuale Città del Vaticano, ma pretende di appartenere a qualcosa di molto più grande e trascendente. E poi possiamo imputargli una eccessiva soggezione al potere costituito, qualunque esso sia, borbonico, garibaldino, o massonico-liberale, di cui legittima sistematicamente ogni diritto. Forse, però, questi “vizi”, se contestualizzati, non mancarono di essere addirittura virtù, per le ragioni che abbiamo detto.

Con questo pragmatismo, infatti, riuscì a tenere insieme un popolo palermitano e siciliano cattolico, che altrimenti ne sarebbe uscito lacerato. In Sicilia non c’era mai stato un vero anticlericalismo, e la fede accomunava tutti o quasi, da destra a sinistra. Questo patrimonio fu consegnato alle generazioni future, come dimostra il forte radicamento cristiano che avrebbe avuto il movimento socialista dei Fasci Siciliani. Il merito di ciò va anche a Naselli a mio avviso, che non sposò mai forme estreme di clericalismo reazionario, senza però farsi trascinare per questo dai preti “liberali” del suo stesso capitolo.

In verità Naselli era interessato al Vangelo e non alla politica, che probabilmente considerava un incidente mondano. Se ne può fare un torto a un principe della Chiesa? E seppe fare questo in un momento, per noi ovvio e scontato, per i contemporanei drammatico, in cui il monolite della cultura cristiana dovette di colpo misurarsi con un clima di maggiore tolleranza religiosa e morale.

A me, però, di questa “storia”, interessa un altro aspetto, che trascende la stessa figura del Naselli, ma che emerge prepotente dalle pagine del Lentini, e cioè il rapporto, ancora non sciolto, tra Cattolicesimo e Questione Siciliana.

Questo rapporto è ancora oggi un nervo scoperto, la “storia” è troppo succube del pregiudizio ideologico e geopolitico dello storico che di volta in volta si rapporta a detta questione. E questi pregiudizi si traducono in una vera e propria serie di mistificazioni.

Abbiamo la mistificazione sabauda, dura a morire, secondo cui l’Italia ha portato il “progresso” e la Chiesa era invece solo la “reazione”, come testimoniano inaudite prese di posizioni di storici contemporanei che non hanno esitato a definire l’esplosione del malcontento del 1866 come una rivolta “clerico-mafiosa”, con lo snobismo razzista incurabile che contraddistingue questi giudizi tranchant.

Alla mistificazione sabauda spesso si salda, paludata da complesse interpretazioni sociali ed economiche, ma sostanzialmente convergente, quella marxista. Questa non nasconde il colonialismo interno che seguì alla conquista garibaldina, ma lo giudica positivamente, come un male necessario per sradicare definitivamente la Sicilia dal passato di Antico Regime.

Non meno perniciosa appare la mistificazione del revisionismo neoborbonico: il regno borbonico, regno del bene, del benessere, di Cristo, il “bene” in una parola, contrapposto a tutto il male che viene dopo. Interpretazione falsa! Sia perché il malcontento siciliano sotto quella dominazione è palpabile, sia perché anche sotto il dominio borbonico, seppure in modo diverso, la Chiesa siciliana dovette subire ingerenze, anche pesanti, da parte dell’autorità civile.

Persino la storiografia indipendentista non manca di avere le sue mistificazioni, descrivendo un popolo siciliano tutto indipendentista e teso a lottare tanto i Borbone quanto i Savoia, e ad occultare il reale sostegno popolare avuto da Garibaldi e la causa unitaria. In genere gli indipendentisti sono disinteressati alla Chiesa se non per dire che “anche la Chiesa”, finché poté, fu dalla parte dell’indipendenza, il che peraltro è in parte verissimo, ma solo in parte.

Per finire non manca la mistificazione della storiografia clericale, in genere piuttosto onesta, ma tendente ad occultare il fatto che la Chiesa fosse titolare di diritti patrimoniali, post-feudali, spesso di ostacolo ad una modernizzazione della Sicilia, allora senz’altro necessaria, per il formarsi di una potente “manomorta” improduttiva. Il punto è che l’eversione di questa manomorta non fu perseguita, come sarebbe stato giusto, in una logica di cooperazione, ma in una logica di rapina, e di distrazione delle risorse verso il Nord conquistatore. Ma questa, appunto, è un’altra storia.

Rispetto a queste mistificazioni è possibile tentare di scoprire una “verità”? A nostro avviso sì, una verità scevra da dolose mistificazioni, ma non per questo dotata di una validità oggettiva assoluta. Si tratta, quindi, di una “verità storica”, in cui lo studioso onesto intellettualmente esplicita i propri giudizi di valore di partenze e i propri punti di vista, nonché le questioni di ricerca cui è interessato.

I risultati sono – a mio avviso – di grande momento, e l’opera di Lentini contribuisce a dipanare molte nebbie.

E qual è dunque il dato che emerge? Il dato che emerge è la continuità tra Due Sicilie e Italia, una continuità sorprendente. Entrambe portano in Sicilia un anticlericalismo che vi era sconosciuto, non ultimo perché sconosciuto era il clericalismo nella Sicilia del Regnum.

La Sicilia indipendente aveva una sua chiesa “nazionale”, da tempo immemorabile, ciò che limitava il potere temporale del papa sull’Isola, dovendosi questo limitare al solo potere spirituale. In tal modo la Chiesa cattolica era in Sicilia uno dei ceti costitutivi della “Nazione” e non era, né poteva essere vista, come un “corpo estraneo”. Il giurisdizionalismo dell’Età moderna fu in parte una risposta al potere temporale della Chiesa, che minacciava l’autorità della monarchia assoluta. Poiché in Sicilia, come in Russia o in Inghilterra, il re era sostanzialmente capo della chiesa, questa non era vista come un pericolo per il potere politico e quindi non era combattuta.

Napoli, sul modello francese prerivoluzionario, aveva iniziato la sua sottile guerra contro il Cristianesimo, sia pure in un quadro di monoconfessionalismo, ma nel segno di un giurisdizionalismo sempre più asfissiante.

È pure vero che un po’ di modernizzazione era necessaria, ma nel complesso la politica fu usata per ridurre al silenzio e per togliere autonomia ad una voce della società civile che si frapponeva tra il popolo e il potere assoluto. Con l’aggravante che questo potere assoluto non era autoctono ma era “al di là del mare”. La politica ecclesiastica borbonica era quindi una politica accentratrice e assolutistica, e di questa anche la Chiesa ne faceva le spese.

L’Apostolica Legazìa, sopravvissuta alla catastrofe del Regno di Sicilia, finì per vedere stravolta la sua funzione. Nata come strumento di autonomia della Chiesa Siciliana, strumento unico al mondo, si tradusse in un sistema di oppressione politica dell’autonomia della Chiesa. Normale che la Chiesa siciliana, poco a poco, cominciò a vedere l’istituto, un tempo difeso con orgoglio, come un ostacolo, e a cercare nel Santo Padre un avvocato naturale in difesa della loro libertà.

Non diversamente accadde dopo l’Unità d’Italia. L’Apostolica Legazìa, cui il neonato Stato d’Italia non avrebbe rinunciato sino alla Legge delle Guarentigie, diventò non solo uno strumento di asfissiante oppressione, ma ormai nelle mani di un’élite massonica e scristianizzata. Questa pretendeva una Chiesa ruffiana che benedicesse lo Statuto albertino ad uso popolare e che chiudesse un occhio di fronte a continui provvedimenti che portavano a stravolgere la fede e la morale tradizionale dei Siciliani. La Chiesa avrebbe dovuto assistere sorridendo al totale spossessamento di tutte le proprie attività, e allo smantellamento delle proprie attività di previdenza e assistenza sociale, e non dire nulla. Nulla mentre l’equivalente di attuali miliardi di euro prendevano il volo per finanziare le infrastrutture del Nord e il risanamento del dissesto ereditato dallo stato sabaudo. Era un po’ troppo. Fu l’anticlericalismo liberal-massonico a generare in Sicilia il clericalismo, dapprima del tutto sconosciuto.

In questo senso la “parabola” di Naselli è la parabola della stessa Sicilia. Nominato arcivescovo per pacificare i Siciliani, restò in “odore” di Sicilianismo e ne seguì in sostanza il percorso.

Chiesa siciliana e coscienza politica siciliana sono all’epoca praticamente coincidenti.

Entrambi per quarant’anni circa avevano lottato per l’indipendenza, o quanto meno per l’autonomia della Sicilia dalla tirannia napoletana. La Chiesa, naturalmente, aveva sempre rifuggito dagli aspetti più violenti delle rivolte, ma al momento del dunque era stata al fianco di tutte le altre componenti della società siciliana, nel 1820, come nel 1848, come nel 1860. E come il resto dell’opinione pubblica isolana approda nel 1860 al liberalismo e all’unitarismo autonomista. Questo giustifica le sincere aperture del Naselli persino al Garibaldi, nella veste quest’ultimo di legato apostolico. Allora una conciliazione tra la storia autonoma della Sicilia, la sua coscienza cristiana, e il nuovo ordinamento unitario e liberale sembrava ancora possibile.

Ma la Chiesa siciliana, come tutta la società siciliana, fu tradita da quel processo unitario e liberale. I cattolici si sentirono traditi. Gli stessi cattolici che avevano partecipato al governo provvisorio del ’48 e che avevano aperto credito al Garibaldi, passano ora all’Opposizione. I moderati vincono in Sicilia solo le prime elezioni politiche, nonostante il suffragio ristrettissimo. Poi tutti, repubblicani, azionisti, autonomisti puri e, appunto, cattolici, passano tutti all’opposizione, uniti dal “regionismo”, cioè dal risentimento autonomista ante litteram. I più intransigenti approdarono al clericalismo politico, e in alcune ali estreme, per qualche anno, si creò persino un partitino neoborbonico, ma che non va confuso con il generale ambito clericale. Miracoli del liberalismo italiano! Creato un partito clericale mai esistito prima e persino di qualche simpatizzante dei Borbone, mai registrato nel mezzo secolo precedente se non presso i poliziotti e qualche collaborazionista.

Naturalmente in questo clima l’arcivescovo non si poteva esporre in prima persona, ma era partecipe di questo clima.

Il cattolicesimo siciliano, deluso da quell’unitarismo che pure aveva sostenuto, si buttò in massima parte sull’autonomismo regionista. Da quello stesso autonomismo regionista sarebbero veniti fuori Sturzo, il Partito Popolare, la Democrazia Cristiana, e infine quell’autonomia statutaria che, bene o male è ancora attualità, persino arrivando a Cuffaro (absit injuria verbis) e oltre.

Il fallimento di quell’entusiasmo avrebbe generato nuovi miti sulle potenzialità salvifiche dell’Autonomia, che però non ci avrebbero liberato, se non in minima parte, dalla condizione di colonia interna.

La storia di Naselli, in sintesi, mi ha anche lasciato un po’ di amaro in bocca, perché è la storia di un fallimento: il fallimento del processo di integrazione della Sicilia nell’Unità d’Italia; un fallimento che neanche la cosiddetta Autonomia, almeno fino ad oggi, è riuscita a invertire.

Naselli era vittima di una contraddizione iniziata con la “catastrofe” del 1816 e incancrenitasi nel 1860. E con lui, ad oggi almeno, lo siamo ancora tutti noi Siciliani.

 

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