La Sicilia dei Trastàmara nel 1400: da Regno a Viceregno
Un altro passettino indietro nel nostro viaggio nel tempo. Oggi vediamo un secolo … silenzioso, poco noto ai più, ma che contiene uno snodo fondamentale nella storia istituzionale della Sicilia.
Se la Questione Siciliana contemporanea nasce nel 1816, le sue radici più lontane sono rintracciabili ai primi del 1400: «…la maggior parte dei baroni preferì avere un re debole e lontano piuttosto che uno più ingombrante e vicino…».
Capitolo 4: La Dinastia Trastàmara
- 1 – Il re d’Aragona diventa anche re di Sicilia: la Sicilia non ha più re proprio
Lo stallo fu risolto nel 1412, in Spagna, quando i rappresentanti delle tre monarchie confederate (Catalogna, Aragona e Valenza, mentre Maiorca era considerato un regno secondario e la Sardegna nient’altro che un possedimento) decisero di dare la corona ad un ramo della famiglia castigliana dei Trastàmara. Divenne re d’Aragona così Ferdinando I, già reggente della Castiglia per conto del nipote, figlio di Eleonora, sorella maggiore di Martino il Vecchio, e a sua volta figlia di un’altra Eleonora, sua nonna materna quindi, la sorella maggiore di Federico IV e figlia di Pietro II, quindi zia della regina Maria; questi, senza colpo ferire, prese a considerarsi erede anche della Sicilia, per il solo fatto che già Martino II il Vecchio lo era stato immediatamente prima di lui, o forse perché figlio di una cugina prima di Maria e discendente di Pietro II. Ma questo avrebbe comportato per la nostra Isola un cambio epocale. La Sicilia non era mai stata una dipendenza politica dell’Aragona, ed aveva avuto in comune con questa il re solo in casi eccezionali, come all’inizio con Pietro d’Aragona, poi per breve tempo sotto Giacomo, e infine, quasi incidentalmente, con Martino II. Ferdinando invece pensava di fare della Sicilia nient’altro che una Sardegna più grande, un’espansione dell’Impero catalano nel Mediterraneo. A rafforzare questa incoronazione se ne fece confermare l’investitura dall’antipapa Benedetto XIII, giacché sin quasi agli ultimi tempi dello Scisma d’Occidente, l’Aragona fu fedele ad Avignone, e ne assecondò al momento le pretese, del resto mai riconosciute in Sicilia, di supposta dipendenza feudale dal papa.
Naturalmente la Sicilia era più potente della Sardegna, con un baronato autorevole e geloso delle proprie prerogative. Ma, proprio per questo, il prezzo da pagare sarebbe stato quello di blandire questo baronato, e intanto assicurarsi la corona di Sicilia, e poi, poco a poco, assorbirla all’interno dei possedimenti iberici. Per facilitare la transizione, magnanimamente, Ferdinando confermò Bianca nel pieno esercizio del Vicariato sulla Sicilia: come a dire, “non cambia nulla”, almeno per il primo momento. Ma in tal modo gettava le basi per la futura stretta. Il Cabrera fu liberato, ma dovette per molti anni restare esiliato in Spagna; in tal modo la Sicilia fu ad ogni modo pacificata.
Bianca dovette assistere impotente a questo declassamento, nel quale manteneva il titolo di regina consorte solo di nome, e di fatto diventava una sorta di viceregina, una funzionaria dell’Aragona. La Sicilia avrebbe avuto allora le energie per resistere a quella che, né più né meno, era la perdita dell’indipendenza, quanto meno di quella esterna. Ma la maggior parte dei baroni, ancora una volta, preferì avere un re debole e lontano, che legittimasse il loro potere interno, piuttosto che uno ingombrante a loro più vicino. In maniera disgiunta, uno dopo l’altro, i più importanti baroni presero la nave e andarono a giurare fedeltà a Barcellona al nuovo signore. A Bianca non restò che accettare il fatto compiuto.
Ferdinando però non era contento di essere re soltanto di nome della Sicilia. Per iniziare a “stringere d’assedio” l’ultima sovrana di Sicilia, nel 1414 manda in Sicilia una commissione di quattro “vicegerenti” a rappresentarlo, in pratica per commissariarla e quindi per svuotare il suo ruolo di ogni potere. Dopo aver girato il regno i Vicegerenti pongono sede a Palermo, mentre la vicaria risiedeva più spesso a Messina, da poco ripresa al controllo regio dopo la breve occupazione papalina. Alla fin fine Bianca, che peraltro doveva ereditare il Regno di Navarra, non era stata altro che una regina consorte, e non le restava che riprendere la via per la Spagna. Al suo posto, per placare i sentimenti quanto meno autonomisti dei Siciliani, che ancora non avrebbero accettato di farsi governare da un funzionario qualunque, inviò – sempre come vicario – il secondogenito, Giovanni di Peñafiel, colui che un giorno sarebbe diventato marito di Bianca. Un’ambasceria siciliana, infatti, già all’incoronazione di Ferdinando pose espressamente la domanda, irricevibile dal punto di vista aragonese, che fosse riconosciuto re di Sicilia Federico de Luna, figlio naturale di Martino I; in subordine che Giovanni di Peñafiel fosse riconosciuto come re, in modo che la Sicilia restasse indipendente. La promessa, poi mantenuta, di mandarlo come vicario, in qualche modo placò gli animi e non fece ritenere inutile l’ambasceria, ma in tal modo si ribadiva l’unione personale tra le due corone.
Da questo momento in poi, quindi, non seguiremo più, se non per grandi linee e per ciò che riguarda la Sicilia, le vicende personali, familiari, dinastiche, politico-generali, delle corone cui la Sicilia fu legata. Questa storia, infatti, non appartiene più specificamente alla Sicilia e ci condurrebbe troppo lontano.
- 2 – Il breve regno di Ferdinando I
Ferdinando, intanto, se è vero che ancora non governava direttamente la lontana Sicilia, affidata in tutto e per tutto a suo figlio Giovanni, per un certo verso la attirava più strettamente nell’orbita aragonese. Giovanni era un vicario reale, quasi un re, come ce n’erano stati in passato, come ad esempio Federico III ai tempi di re Giacomo. I Siciliani avevano almeno l’illusione di una piena indipendenza.
L’unica riforma legislativa duratura di Ferdinando I, a tutela dei cespiti del patrimonio regio, più volte nel passato oggetto di usurpazioni, fu la creazione di un ministero speciale, chiamato “Conservatoria del Real Patrimonio”. Di tutti gli uffici del Regno di Sicilia, questo sarebbe stato il più longevo, giacché arrivò sino al 1844, quando la sua importanza era però già decaduta da tempo.
I Siciliani, e in particolare i Messinesi, hanno l’ardire di chiedere comunque a Giovanni, già insediato come vicario, di accettare la corona di Sicilia. Richiesta troppo prematura: Giovanni, molto forse, avrebbe potuto insorgere contro il fratello maggiore, come aveva fatto Federico III 120 anni prima circa, ma non certo contro il padre. L’unica cosa che ottennero fu quella di far spaventare gli Aragonesi, che presero sul serio da quel momento in poi l’indipendentismo siciliano e adottarono le dovute contromisure. E comunque i tempi erano cambiati: Giovanni non era Federico, nulla lo legava in particolare a una terra che conosceva da un anno a malapena, l’Aragona non stava certo svendendo la Sicilia agli Angioini come aveva tentato di fare re Giacomo più di 100 anni prima, mettersi contro una potenza ormai consolidata come l’Aragona non era poi così semplice, ma soprattutto lo spirito del Vespro, dopo più di un secolo di peste, guerre civili, anarchia baronale, restaurazione regia, due ondate di feudalizzazione catalana, e tanta delusione accumulata, si era in gran parte spento. Il partito indipendentista rappresentava ormai solo una frazione della classe dirigente. Giovanni non avrebbe avuto in ogni caso alcun vantaggio a macchiarsi di fellonia nei confronti del padre.
Nel 1416 Ferdinando I muore, senza ancora avere realmente inglobato la Sicilia tra i possedimenti catalani, ma il processo era avviato, e doveva solo consolidarsi negli anni a venire.
- 3 – Alfonso il Magnanimo inaugura il “viceregno”, e fa della Sicilia la base per la conquista di Napoli
Gli succede il figlio Alfonso, passato alla storia con il nome di “Il Magnanimo”, per il suo orientamento umanistico, il quale avrà per l’Italia un’attrazione tale da fare di lui più un re italiano che iberico.
Tra i primi provvedimenti di Alfonso, che non aveva fiducia fino in fondo del fratello Giovanni, fu quello di richiamarlo a Barcellona, promettendogli la mano di Bianca, già erede del Regno di Navarra.
Decise di inviare al suo posto due suoi rappresentanti (Ram e Cardona) a governare la Sicilia con il nuovo titolo di “Viceré”; era il 1416. Per la Sicilia iniziava la lunga era della semi-indipendenza in unione personale con altre monarchie. Per mano del fratello, poco prima che questo partisse, al fine di indorare la pillola di questa discesa di livello per la Sicilia, Alfonso giurò fedeltà alle Costituzioni, Capitoli, privilegi, libertà, immunità del Regno. Si fece giurare, sempre per mezzo di questo, fedeltà dai principali baroni a uno a uno senza convocare il Parlamento, cui spettava l’acclamazione del nuovo re, vista l’ancora incerta linea di successione per la Sicilia; segno questo che Alfonso temeva che un legittimo Parlamento avrebbe potuto acclamare un altro re. Cominciava la lunga serie di “quasi-incoronazioni”, per corrispondenza, nelle quali l’indipendentismo siciliano valeva almeno a salvare la sovranità interna del Regno. Altro risultato nazionale fu quello di riservare tutti, o quasi, gli uffici del Regno ai regnicoli siciliani. All’inizio, però, il Governo viceregio non era ben istituzionalizzato, sembrava ancora provvisorio. Spesso non era singolo, ma costituito da una coppia, oppure una terna, o addirittura una quaterna di inviati. Non aveva ancora poteri pieni. Doveva consultarsi con il monarca per le decisioni più importanti. I viceré non potevano nominare i più importanti ufficiali del Regno, né concedere beni feudali o “burgensatici” oltre soglie minime di rilevanza. Per qualche breve intervallo, al posto dei viceré, dei cui atti di governo in verità sappiamo poco, si trovò a governare la Sicilia l’infante Pietro, fratello di Alfonso, spesso durante le guerre per la conquista del Regno di Napoli. Ma in ogni caso Alfonso curò in prima persona gli affari del Regno. Alcuni dei viceré di epoca alfonsina erano siciliani, non catalani, tratti da un ceto di piccola nobiltà di toga, borghesi e legulei nobilitati, nucleo di curiali che allora reggeva lo Stato di Sicilia. Insomma, in un certo senso Alfonso potrebbe essere definito l’ultimo vero re di Sicilia, in quanto ultimo a occuparsi direttamente delle questioni del Regno prima del viceregno “vero e proprio”, iniziato in realtà soltanto dopo di lui.
I fatti politici della corona alfonsina riguardano ora la storia di Sicilia solo incidentalmente, per il fatto che la Sicilia partecipò tanto alle guerre quanto all’attività diplomatica del grande sovrano, ma non certo in posizione dominante. Ricordiamo appena che la regina Giovanna II di Napoli, una degli ultimi sovrani angioini, chiede aiuto ad Alfonso per mantenere il trono di Napoli, promettendogli l’adozione (e quindi la successione) e intanto, subito, il Ducato di Calabria che veniva annesso alla Sicilia. Alfonso interviene a favore della regina, ma dopo pochi anni (1423) questa ricusa l’accordo. Ne nasce una lunga guerra in cui l’Aragona-Sicilia lotta per la conquista del regno meridionale italiano. Guerra con fasi alterne, durante la quale Alfonso è preso prigioniero, tradotto nel Ducato di Milano, che però poi si trasforma nel migliore alleato di Alfonso, nell’ottica di spartirsi l’Italia. Nel 1442, infine, Alfonso entra a Napoli, che fa sede della sua corona mediterranea fino alla morte, lasciando il fratello Giovanni vicario nelle corone spagnole, e la Sicilia sempre amministrata dai governi parlamentari e viceregi. Dopo di che si ingerisce, in verità senza troppo successo, nella politica degli stati italiani, pervenendo infine a quella Pace di Lodi (1455) che segnerà per un quarantennio circa pace ed equilibrio nella Penisola. Il Regno di Napoli, in questo frangente, diventa uno dei cinque stati italiani garanti della concordia (insieme al Ducato di Milano, alle Repubbliche di Venezia e Firenze, e allo Stato della Chiesa).
- 4 – La politica alfonsina in Sicilia
Alfonso per qualche anno si stabilì in Sicilia (1421 e 1432-35), dove riorganizzò il regno, con una politica accorta di concessioni e restrizioni, sempre all’insegna di una grande intelligenza politica. Nel 1433 presiedette egli stesso il Parlamento, senza l’intermediazione viceregia. Durante il suo soggiorno in Sicilia fondamentalmente ne fece base per il suo grande disegno, la conquista del traballante Regno di Napoli e infatti istituì una curiosa carica nella vacanza di quella viceregia, che in sua presenza non avrebbe avuto molto senso: i “Presidenti del Regno”. Questi gestivano appena l’ordinaria amministrazione, dovendosi rivolgere a lui per ogni altra cosa e non potendo neanche convocare il Parlamento. Ma erano necessari giacché, anche quando presente in Sicilia, non poteva essere sua principale preoccupazione l’amministrazione della Sicilia, che era solo uno dei tanti regni, e per di più nel corso di operazioni militari.
Dopo di ciò questa carica sarebbe stata usata anche per tamponare brevi vacanze nell’ufficio del viceré, su indicazione dello stesso che designava un “presidente” come sostituto, quasi sempre l’arcivescovo di Palermo. In caso di morte improvvisa o di sostituzione senza aver nominato il sostituto, assumeva invece la presidenza del Regno il Gran Giustiziere, assistito dal Sacro Regio Consiglio, come era nella prassi costituzionale dello Stato sin dai più antichi tempi. Durante la sua permanenza in Sicilia dotò l’Isola della sua prima università: l’Università degli Studi di Catania (del 1440 la bolla papale), quel “Siculorum Gymnasium” da cui sarebbero usciti i laureati in legge necessari per la giustizia e per la burocrazia dello Stato, imprimendo così una svolta innovativa alle strutture ancora medievali della vecchia amministrazione. L’Università fu dotata anche della Facoltà di Medicina, per emanciparsi dalla più lontana Salerno. Tra le innovazioni del re i “Capitoli del Protomedicato”, con cui si riorganizzavano gli uffici sanitari (1429); all’invenzione della stampa questi capitoli sarebbero stati pubblicati da uno dei più noti protomedici del Regno, lo studioso di veterinaria Gian Filippo Ingrassia, nel 1504. Il protomedico rilasciava le licenze per l’esercizio della professione medica, sovrintendeva alla salute nel Regno, autorizzava gli uffici di “salassatore” (una sorta di infermiere), levatrice, aromatario (farmacista). Altra importante riforma, fu la riorganizzazione di tutta la procedura, civile e criminale (1446), con Capitoli che sarebbero arrivati praticamente alle soglie dell’Età contemporanea.
Favorì molto i commercianti italiani in Sicilia, specie i pisani, più che gli autoctoni, segnando involontariamente una divisione del lavoro in cui all’Isola toccava soprattutto il settore primario, peraltro allora importantissimo.
Alfonso trovò il tempo di riprendere la politica “africana” del Regno di Sicilia, esercitando pressioni e organizzando spedizioni sul vicino regno di Tunisi. Questa politica, però, continuata peraltro dai suoi successori, si rivelò ben povera di frutti, in termini di conquiste stabili, anche perché ormai il Mediterraneo era segnato da una presenza ottomana, e islamica in generale, sempre più soverchiante. Non dimentichiamo che proprio sotto la sua monarchia si ebbe la storica caduta di Costantinopoli in mano turca. Non mancarono tregue o altri tipi di attività diplomatiche, gestite direttamente dai viceré, come quella con Tunisi del 1438.
- 5 – Perché il titolo di Rex utriusque Siciliae non significa “delle Due Sicilie” ma “dei due Regni di Sicilia”
Nel 1430 la quieta Sicilia ha un sussulto indipendentista. Il figlio naturale di re Martino, Federico de Luna, appoggia la Castiglia contro l’Aragona, e trova alcuni sostegni nella feudalità siciliana di origine “latina” che non aveva ancora del tutto rinunciato ad avere un proprio re. L’azione di Federico fu sventata, e finì i suoi giorni emarginato, senza dare peraltro discendenza stabile all’ultima casa regnante propria di Sicilia.
Nel 1442 – come abbiamo detto – Alfonso entrò in Napoli, ma non per questo fu stravolto il Trattato concluso nel 1372 tra i due regni. Fino ad allora il Regno di Sicilia, nella sola corrispondenza con il papa, doveva ancora usare il titolo umiliante di “Re di Trinacria”. Da questo momento in poi Alfonso legittima, per entrambi i Regni, l’uso del termine “Re di Sicilia”, ma poiché la Sicilia vera era quella insulare, il Regno di Sicilia “al di qua del Faro” (la Sicilia propria teoricamente ora era “Regno di Sicilia al di là del Faro”) cominciò ufficiosamente anche ad essere chiamato “Regno di Napoli”, anche in via amministrativa. Per giustificare questa dualità, prese il titolo di “Rex utriusque Siciliae” (cioè Re di entrambe le Sicilie, ovvero dei due regni distinti). Falso storico, quindi, che Alfonso abbia creato il “Regno delle Due Sicilie”, mentre è vero proprio il contrario, e cioè che Alfonso mantenne, anzi istituì, la dualità delle corone e degli stati, solo incidentalmente riuniti sotto la sua persona. La Sicilia non guadagnò moltissimo da questa conquista, a dire il vero.
Alfonso, infatti, pose a Napoli la sua reggia, da cui controllava il suo impero Mediterraneo, e come abbiamo visto entrò nel gioco degli stati italiani e si comportò come vero sovrano italiano, facendo di Napoli una grande capitale dell’Umanesimo. Non restituì alla Sicilia nemmeno le Isole Eolie, retrocesse nel trattato del 1372 a Napoli, e forse fu tanto se il Regno di Sicilia mantenne nome e stato, con tanto di istituzioni parlamentari, mentre a Napoli Alfonso poteva tranquillamente governare in modo assoluto. In Sicilia continuavano ad essere inviati viceré, ma Alfonso da Napoli continuò ad occuparsi in prima persona anche degli affari del regno insulare. A Napoli la cancelleria alfonsina scelse di affiancare al latino per la prima volta il volgare toscano nel quadro della politica italiana del sovrano. In Sicilia, che già dal secolo precedente aveva adottato il siciliano come lingua propria, invece non cambiò nulla, anche se una certa influenza dell’italiano cancelleresco sul siciliano quattrocentesco è innegabile.
Da notare che nel 1443 ottenne dal papa l’investitura di Napoli, come feudo pontificio, mentre la Sicilia non solo restò del tutto estranea a questa investitura, ma vide esercitare con nuovo vigore la piena autonomia ecclesiastica garantita dall’apostolica legazìa. Anche i riti religiosi erano diversi tra Napoli e Sicilia (a parte i bizantini uniati, diffusi tanto in Calabria quanto nel Val Demone): a Napoli il messale era quello romano, in Sicilia era quello gallicano, già introdotto dai Normanni secoli prima alla loro venuta (e tale differenza sarebbe rimasta sino al Concilio di Trento, nel XVI secolo).
Il Parlamento del 1446 introduce per la prima volta un donativo specifico per il viceré, oltre a quello ormai comune per il re, cioè per lo Stato. La Sicilia alfonsina sembrava in superficie pacificata, con un buon equilibrio di poteri tra Corona e Parlamento, tra Città e Feudi, con un rinnovato vigore della legge e senza più alcun rigurgito di quell’anarchia feudale che aveva rovinato il regno indipendente un secolo prima. Ma la malapianta doveva essere ancora piuttosto forte nella Sicilia profonda. E così sarebbe rimasta almeno per tutto il secolo. Significativi in tal senso i primi “Fatti di Sciacca” del 1455, consistenti in una vera e propria faida tra le famiglie dei Perollo e dei De Luna. Dovette intervenire il re, con la confisca dei beni e il bando per i responsabili, per riportare almeno una parvenza di ordine. Così pure non fu facilissima la vita dei viceré, spesso rimossi non perché non avessero tutelato gli interessi del Regno (non mancarono atti di vero e proprio servilismo verso l’Aragona infatti), ma perché avevano toccato qualche privilegio baronale. Ma, almeno fino a che fu re Alfonso, la presenza del re si faceva sentire a riequilibrare queste spinte anarchiche.
Negli ultimi anni non cambio più viceré, lasciando sempre l’abile e fidato Lopes ovvero Lupo Ximenes de Urrea, il quale, un po’ perché uomo politico di prim’ordine nella monarchia alfonsina, un po’ perché richiamato a Napoli per ricevere disposizioni, si servì più volte, per l’ordinaria amministrazione, di “Presidenti del Regno” lasciati in sua vece nelle brevi assenze.
- 6 – Re Giovanni, l’“Unione Perpetua” tra Aragona e Sicilia e il viceregno “proprietario”
Alla sua morte, nel 1458, i due Regni di Sicilia presero nuovamente a dividersi: Napoli fu lasciata al figlio naturale Ferdinando; tutte le altre corone, Sicilia inclusa, al fratello Giovanni, colui che in gioventù era stato vicario in Sicilia, e che già da tempo era suo vicario a Barcellona. Il Parlamento di Sicilia chiede subito a Giovanni che Carlo, figlio di primo letto del re e di Bianca di Navarra, fosse nominato vicario per la Sicilia, e che per il futuro i viceré dovessero essere sempre i primogeniti dei sovrani. La presenza vicina di Alfonso aveva fatto rinviare la richiesta del re proprio, ma il rapporto tra Aragona e Sicilia era rimasto ancora piuttosto confuso, quasi da semplice unione personale delle corone.
Giovanni, conoscendo bene e personalmente le non sopite aspirazione nazionali dei Siciliani, ebbe paura di questa richiesta, temendo che il figlio, al quale naturalmente spettava la Navarra ereditata dalla madre Bianca, non finisse per essere acclamato re di Sicilia, e pensò di sistemare una volta e per tutte la Questione Siciliana. Per sciogliere questa contraddizione operò una riforma costituzionale, nel 1460. Fu proclamata l’Unione Perpetua tra le corone di Aragona e Sicilia, in pratica la perdita dell’indipendenza esterna dello Stato di Sicilia, sino ad allora unito sì all’Aragona, ma teoricamente in unione personale reversibile. Non doveva essere però poi così sicuro re Giovanni di questa unione se, già nel 1464, chiese al Parlamento siciliano di riconoscere come erede al trono il figlio Ferdinando, avuto dal suo secondo matrimonio. Di questi anni è pure la fondazione del primo banco pubblico di Sicilia e uno dei primi al mondo: il Banco della “Prefetia” di Trapani (giacché il primo cittadino in questa città aveva il titolo onorifico di “prefetto”) nel 1459, banca comunale di deposito, le cui vicende sono però poco note, e che avrebbe operato sino al XIX secolo.
Alla fondamentale riforma costituzionale si aggiunse la figura del “Viceré proprietario”: non più siciliano, nominato stabilmente con un mandato di tre anni (in teoria, quanto prese a durare la legislazione parlamentare, ormai più regolare, ma spesso prorogato), dotato di tutti i poteri del re. In pratica da questo momento in poi i sovrani si disinteressano delle vicende interne dello Stato siciliano. E questi provvedimenti servivano per tenere la Sicilia “eternamente” unita all’Aragona. Per contro, però, al suo interno, lo Stato di Sicilia è lasciato nella più piena indipendenza. Il Parlamento sarebbe stato convocato con regolarità ogni tre anni, stabilmente formato da tre Camere o Bracci: Militare, in rappresentanza dei feudi laici, Ecclesiastico, in rappresentanza dei feudi ecclesiastici (abbazie) e dell’episcopato, e Demaniale, in rappresentanza dei liberi comuni o città demaniali, cioè i 42 centri più importanti del Regno. Tra una convocazione e l’altra, il Parlamento siede in permanenza per mezzo di una Deputazione del Regno di 12 componenti (4 per ogni Braccio), alla quale è delegata tutta la riscossione delle imposte dirette (sottratta al Governo Viceregio, che può amministrare direttamente solo quelle indirette, o gabelle). Più correttamente va detto che sotto Giovanni si cristallizzano prassi che si erano andate via via formando sotto il regno del fratello, come appunto quella della Deputazione. Le imposte dirette, introdotte come strumento di finanza straordinaria sotto i re normanni e svevi (da cui il nome storico di “donativi” per esigenze speciali del Regno che assunsero ora al posto delle vecchie “collette”), diventarono la norma nel periodo della dinastia Aragona, e, poco a poco, sarebbero diventate la fonte più importante della finanza statale, oltre alle vecchie gabelle che, per motivi ideologici, il Vespro aveva dovuto ridurre a quelle “antiche” (cioè vigenti ai tempi di Guglielmo il Buono, abrogando quelle istituite da Federico Imperatore). Col tempo il Parlamento di Sicilia avrebbe votato senza condizioni il donativo ordinario, teoricamente sempre un “dono” e quindi per questo votato dal Parlamento, mentre quello straordinario era oggetto di una vera e propria trattativa con la Corona, in cambio del placet regio sui Capitoli (cioè leggi) votati dal Parlamento. Non a caso le leggi capitolari erano chiamate “pactatae”, cioè concordate tra Re e Parlamento. In tal modo il Parlamento di Sicilia esercitava già, in maniera assai precoce, le funzioni finanziarie e legislative tipiche dei moderni parlamenti. Tutte le magistrature del regno, civili, penali, ecclesiastiche, amministrative, contabili, rigorosamente riservate a regnicoli, con incarichi lunghi, quando non a vita. I più importanti dei quali sono dati dal Sacro Regio Consiglio che attornia (o condiziona?) il Viceré nelle decisioni di ogni giorno. La legislazione diventa ormai stabilmente “capitolare”, cioè votata dal Parlamento, con il placet regio, ad ogni richiesta triennale di donativi, ma le antiche “Costituzioni” (votate, al contrario, dai Parlamenti ma su proposta regia) non perdono vigore, anzi costituiscono il cuore del diritto siculo, insieme all’eterno diritto romano come base del diritto civile. Al di sotto di queste leggi troviamo le prammatiche, regie e viceregie, e infine i dispacci regi. Ma questa legislazione, di secondo livello, è pure soggetta a sindacato di legittimità da parte delle magistrature del Regno. Il Viceré non può emettere prammatiche in contrapposizione alle leggi capitolari votate dai Parlamenti. Il Re invece può, ma queste sono soggette comunque a un sindacato di costituzionalità da parte della Magna Curia dei Maestri Razionali, che ha il potere di dare “esecutoria” (cioè efficacia) nel Regno per ogni atto del Re. La cittadinanza, infine, può essere attribuita a forestieri solo dal Parlamento, e spesso questo privilegio era ad esempio accordato ai viceré che intendevano naturalizzarsi per mezzo di matrimoni o acquisto di feudi in Sicilia.
Lo sviluppo precoce di una finanza parlamentare comporta la necessità di distribuire il donativo in base grosso modo alla capacità contributiva, e quindi si porta dietro l’esigenza di sviluppare veri e propri censimenti. La Sicilia, in questo, ha un vero e proprio primato, con censimenti, a fini fiscali/feudali che datano dallo sbarco normanno, quando già erano comuni le “platee”, cioè le descrizioni delle terre con gli abitanti, in particolare i villani, che sulle stesse insistevano. Nei secoli questa tecnica si affina sempre più e trova impulso formidabile nel meccanismo finanziario dei donativi parlamentari. Sta di fatto che, già dal 1501, la Sicilia ha il suo primo censimento generale, seguito dal secondo nel 1548, e poi via via nel tempo in maniera sempre più frequente, sviluppando una vera e propria tradizione statistica nazionale.
La Sicilia ha anche moneta propria, coniata dalla zecca di Messina, flotta propria, è insomma un vero stato a sé. Di norma non un centesimo di tributi siciliani va all’Aragona, se non per qualche ben specifica esigenza militare, votata dal Parlamento, non una legge catalana si applica in Sicilia, non un ufficio (al di fuori di quello di viceré) poteva essere affidato a chi siciliano non era. Naturalmente non mancavano eccezioni a questa totale indipendenza fiscale, trattate però di volta in volta in quanto tali, come quando re Giovanni chiese esplicitamente alla Sicilia denaro per domare una rivolta in Catalogna aizzata dal re di Francia o, più tardi, quando la Sicilia mandò truppe per sedare gli ultimi conati indipendentistici della Sardegna del Marchese di Oristano.
In una parola, per garantirsi la fedeltà del Regno in politica estera, Giovanni stava letteralmente regalando lo Stato di Sicilia ai baroni, trasformandolo di fatto in una sorta di repubblica baronale, con la partecipazione subalterna delle oligarchie “borgesi” dei principali centri urbani.
Ciò, nel lungo termine, avrebbe risparmiato alla Sicilia ogni forma di sfruttamento esterno coloniale. La mancanza di politica estera propria avrebbe favorito un periodo lungo di sostanziale pace (magari mentre il re combatteva guerre lontane, chiedendo qualche aiuto alle milizie baronali del Regno), e quindi una crescita economica sostanziale, una crescita demografica che avrebbe inaugurato un periodo di colonizzazione interna e di creazione di nuovi insediamenti, tutti feudali.
Per contro, però, la mancanza di un vero re e di una vera corte propria (il viceré restava sempre una figura assai debole), impediva la tutela nel lungo termine di un interesse nazionale, favoriva il particolarismo municipale, ostacolava l’innovazione (a parte poche grandi riforme promosse direttamente dalla Corona), e avrebbe favorito, sui lunghi tempi, l’immobilismo nei privilegi.
Il viceré, già dall’invio dei primi vicegerenti da parte di Ferdinando I, prese a risiedere sempre più spesso a Palermo, dopo il relativo declino dell’epoca indipendente, quando i Chiaramonte avevano quasi cacciato i re dalla capitale, e proprio nel loro Palazzo, lo Steri, mentre il Palazzo reale era un po’ decaduto. Dall’epoca di re Giovanni questo primato si fa praticamente irreversibile, ma il viceré non manca mai di girare il Regno e, per assecondare un po’ il municipalismo delle altre due con-capitali, risiedeva per alcun tempo a Messina, e più raramente a Catania. Municipalismo che non viene mai del tutto stroncato dalla corona iberica, che doveva conoscere bene il motto romano del divide et impera.
L’effetto congiunto della perdita dell’indipendenza e della riforma di re Giovanni sarebbe stato quindi nel complesso deleterio per la Nazione siciliana, lentamente regredita in un provincialismo autoreferenziale.
In questo contesto si rilevano sempre più frequenti episodi di intolleranza verso l’unica minoranza ancora presente in Sicilia: gli ebrei. Nel 1474 si scatena il primo barbaro pogrom contro di loro, anche se già un dispaccio viceregio del 1460 aveva vietato loro di vendere carne ai cristiani. I viceré aragonesi si portavano dietro una ristrettezza di vedute religiosa che ai Siciliani era sconosciuta. Durante il regno di Giovanni, tuttavia, la loro sopravvivenza non sembra minacciata e nel complesso i Siciliani, a parte alcuni specifici episodi, restano molto legati a questa componente etnica che viveva in pace in Sicilia praticamente da sempre. Per gran parte del Regno di Giovanni fu viceré sempre lo Ximenes de Urrea che già lo era stato con Alfonso. Questi godeva davvero di un’ampia delega anche di poteri di rappresentanza estera da parte di re Giovanni e, negli ultimi anni di vita di questo, quando già cieco si era affiancato al figlio Ferdinando, anche da quest’ultimo (dal 1474 re, ma già associato di fatto dal 1468). La Sicilia aveva quindi allora una sua piccola politica estera, sia nei rapporti con gli stati italiani, sia nelle guerre contro l’Impero Ottomano, che avanzava minacciosamente, sia nella lotta contro i pirati magrebini, che infestavano le coste della Sicilia già sin dall’inizio del secolo, alternate a tregue e trattati con il sovrano di Tunisi, stipulati proprio dalla Sicilia e non dall’Aragona. In tutto questo il viceré si muoveva perciò come capo di un vero stato sovrano sia pure all’interno di un quadro di direttive ricevute dal re d’Aragona. Ricordiamo dello Ximenes di Urrea, ancora, la centralizzazione a Palermo negli uffici del Protonotaro di tutti i documenti regi sparsi per la Sicilia, e persino a Napoli, di epoca sveva o aragonese.
Con tutto ciò il lungo viceregno dell’Urrea lo aveva reso troppo legato agli interessi delle classi dirigenti isolane e troppo morbido nell’esigere i diritti tributari che spettavano alla Corona. Benché vecchio e cieco, re Giovanni manda una coppia di viceré per riparare il danno, ma questi, il Pujades e il Peralta, sono così privi di tatto nel raccogliere i tributi che il re è costretto a destituirli con un pretesto per paura di una rivolta che avrebbe potuto perdere la Sicilia: Giovanni non dimenticava mai la lezione giovanile in cui i Siciliani avevano mostrato di aspirare ad un re proprio, e intravedeva sempre questo pericolo, o anche temeva che acclamassero per re Ferdinando, il re di Napoli, figlio di Alfonso il Magnanimo. Mise un po’ d’ordine il nuovo viceré, Giovanni Cardona, ma fino a un certo punto. Le forze armate siciliane erano sguarnite e l’erario esausto, mentre gli Ottomani avanzavano nella Penisola Balcanica. Tentò un Parlamento straordinario, nel 1478, per imporre un donativo straordinario del 10% su tutte le rendite, una vera rapina per i modesti redditi di sussistenza dei tempi. L’opposizione dei Siciliani fece naufragare miseramente il tentativo. Ci furono disordini; tentò di sciogliere il Parlamento a Catania e di continuare le sessioni a Palermo per ottenere il proprio scopo, ma gli fu consigliato di non provare più neanche a convocarlo. L’episodio è a suo modo significativo del fatto che le istituzioni parlamentari, sotto la dinastia dei Trastàmara, erano davvero robuste e tenevano testa al potere regio, soprattutto per le componenti urbane delle tre maggiori città del Regno.
Il feudalesimo, ormai incardinato nell’ordinamento costituzionale, ora non è più un pericolo per l’unità del Regno, ma resta potentissimo e sempre potenzialmente anarchico. Rispetto alla sua introduzione, in epoca normanna, ormai era praticamente tutto ridotto ad un livello solo: feudi popolati (stati feudali) e non popolati o scarsamente popolati (terre feudali) erano infatti tutte concessioni dirette regie. Gli stati feudali erano peraltro ormai delle dimensioni di un solo comune, anche se molte famiglie disponevano, senza continuità territoriale, di città e terre sparse qua e là per l’Isola. Solo la potente Contea di Modica mantenne una dimensione provinciale e continuò a godere al suo interno di un’ampia e sostanziale autonomia. Già roccaforte dei Chiaramonte, era poi passata a Bernardo Cabrera con la restaurazione dei Martini insieme ad altri feudi minori. Ora, sotto il regno di Giovanni, la nipote ed erede del Cabrera sposava un castigliano, portando al di là del mare la titolarità del potentissimo (e anomalo) “stato nello stato”. Curioso destino quello del distretto di Modica: stava per essere il principale nucleo di una signoria nazionale siciliana che ambiva alla corona, i Chiaramonte, e finì per essere il presidio dell’egemonia iberica sulla Sicilia.
- 7 – Con Ferdinando II la Sicilia diventa l’antemurale mediterraneo di un impero mondiale
Alla morte di Giovanni, nel 1479, succede Ferdinando II, detto il Cattolico.
Ferdinando II, già da tempo associato al trono, regnò da solo (anche) in Sicilia dal 1479 al 1516. In questa fase stiamo parlando ormai della trasformazione della vecchia monarchia aragonese in una nuova potenza universale. Ferdinando sposò Isabella di Castiglia, ed insieme cacciarono gli arabi dall’ultimo lembo di terra posseduto in Andalusia, il Regno di Granada (1481-1492). Aragona e Castiglia si sarebbero lentamente integrate in una nuova grande potenza mondiale: la Spagna. Ma la vera svolta sarebbe stata la scoperta dell’America (1492) e l’apertura delle rotte oceaniche, oltre alla conquista del Nuovo Mondo, sancita dalla spartizione con il Portogallo nel Trattato di Tordesillas (1494). Certamente, alla morte di Ferdinando, tutto questo processo era soltanto alle sue fasi iniziali. Ma tanto bastava perché la piccola Sicilia, trattata sempre con il riguardo di una Nazione parlamentare che spontaneamente si era aggregata alla Spagna, era “socia” sì di questo grande impero, ma socia di minima minoranza: una piccola terra in uno smisurato impero. Ben vero che gli scudi del Regno di Sicilia figurassero nelle mitiche tre caravelle di Cristoforo Colombo, ma il dividendo della Sicilia da queste scoperte fu praticamente nullo. Normale che re Ferdinando considerasse la Sicilia soltanto una retroguardia i cui baroni dovevano essere sempre ben trattati, per non aver noie, ma poi se ne disinteressò quasi del tutto.
Ferdinando continuò la politica di pressione contro le coste barbaresche, cui si aggregò la Sicilia. Approfittò infine della crisi finale del Regno di Napoli, prima per progettare una spartizione con i Francesi nel Trattato di Granada (1500), e poi per impossessarsene del tutto, trasformandolo in un viceregno, come già erano Sicilia e Sardegna (1504). È interessante notare come, per la prima volta, nel Trattato di Granada, i Francesi, nell’accettare un Regno di Napoli ridotto (il Ducato di Puglia e Calabria sarebbe dovuto tornare appendice della Sicilia), lo definirono proprio “di Napoli” in modo ufficiale, e non più “Regno di Sicilia citra pharum” (anche perché ormai questo regno sarebbe finito ben prima del “Faro”). Così Luigi XII si fece coronare “Re di Napoli”, dando compimento a un processo che già era iniziato con Carlo d’Angiò. Quando poco dopo gli Aragonesi si impossessarono di Napoli non cambiarono nome, restando da allora in poi soltanto “Re di Napoli”, ed usando i sovrani spagnoli il vecchio titolo alfonsino di rex utriusque Siciliae solo per qualche solenne iscrizione od occasione. Notevole, in questo periodo, la nascita a Palermo (1500) del primo Monte di Pietà, con finalità specificamente sociali e umanitarie. Con Ferdinando la stabilizzazione monetaria, nonostante l’inflazione incombente per effetto della scoperta dell’America, viene a compimento dopo tanto tempo di relativo disordine. Si cominciano ad esempio a coniare di nuovo, dopo secoli di pura moneta di computo, i tarì, mentre i vecchi “pierreali” si erano svalutati fino al valore di solo mezzo tarì. Lo stesso tarì svalutato ormai è argenteo (e non più aureo come ai tempi di Ruggero II). Il viceré Moncada avrebbe fatto una grande opera di pulizia, ritirando e fondendo le troppe monete false in circolazione che rendevano precari gli scambi commerciali.
L’unico intervento personale del re sulla Sicilia riguardò la politica religiosa. I Siciliani, nel loro Stato, avrebbero potuto fare ciò che volevano, ma dovettero introdurre l’Inquisizione Spagnola, con i suoi truci “autos da fé”, ed espellere gli Ebrei (1493), allora più di 100.000 in Sicilia, con l’esproprio di tutti i loro beni e crediti, salvi pochissimi effetti personali. Su questo, nonostante l’opposizione coraggiosa del Senato del Comune di Palermo, e la generale integrazione che caratterizzava gli ebreo-siculi, la volontà del re fu inamovibile. L’espulsione degli Ebrei diede un colpo formidabile all’economia siciliana. Siciliani da sempre, gli Ebrei tenevano gran parte del commercio indigeno, dopo di loro sequestrato dalle “nazioni italiane” del Centro-Nord Italia. Vi è pure da dire che un numero imprecisato, ma certamente molto numeroso, di ebrei, riuscì a restare facendosi o fingendosi cristiano, e mescolandosi con la popolazione locale, anche se per una generazione almeno dovettero tenere un abito verde con dietro cucita una croce rossa in segno di riconoscimento. Fino all’epoca dei tumulti del Viceré Moncada, nella seconda decade del 1500, sono attestati pogrom persino contro di loro da parte della popolazione comune, e particolari “attenzioni” da parte della Santa Inquisizione perché sospettati – molto probabilmente a ragione – di essersi convertiti soltanto in apparenza. L’abolizione dei segni esteriori di riconoscimento, con la motivazione di considerare “blasfema” la Croce cucita sopra a questi sostanziali miscredenti, contribuì alla loro definitiva mescolanza con la restante parte del popolo siciliano; resta il fatto che dal 1517 circa le cronache non parlano più di loro.
L’Inquisizione Spagnola era stata già introdotta nel 1487; nel 1506 i palermitani attoniti dovettero assistere al primo rogo pubblico; la sua amministrazione con un tribunale stabile si sarebbe compiuta solo nel 1513. Questo tribunale aveva un’amministrazione “mostruosa” da un punto di vista giuridico, fuori dall’ordinamento giuridico del Regno, soggetta a sue leggi e in condizioni di immunità sovranazionale, ma soprattutto introduceva un clima retrivo di terrore e di conformismo in tutto il Paese. Agli inizi sede del tribunale fu il Palazzo Reale, poi avrebbero fatto “cambio” con i viceré, stabilendosi allo Steri, mentre quelli sarebbero ritornati all’antica regia di Ruggero II.
Per un popolo che va uno che viene. La Sicilia del secondo Quattrocento accoglie migliaia di Albanesi e Greci dell’Epiro in fuga dall’avanzata ottomana. Dal 1448 al 1534 questi si installano in diversi centri dell’interno, e fondano comunità, alle quali è consentito di mantenere il rito ortodosso (ma non la confessione) sotto la supervisione della ancora florida Chiesa greca basiliana del Valdemone, guidata dall’Archimandrita di Messina, peraltro con seggio di diritto in Parlamento alla pari degli altri vescovi (tutti latini) dell’Isola. In alcuni centri, dove la concentrazione di albanesi era massima, la comunità ha conservato la lingua sino ai giorni nostri.
A Giovanni Cardona seguì un viceregnato relativamente lungo di Gaspare de Spes, al quale si deve l’interruzione della pirateria della Repubblica di Genova, con uno specifico trattato, e una spedizione navale, guidata dall’Ammiraglio Abbatellis che mise a freno la pirateria islamica e a ferro e fuoco alcune città del Nordafrica. Lo Spes, però, si comportò dispoticamente, favorendo i suoi sodali ed arricchendosi personalmente. Famosa la sua spoliazione del Gran Giustiziere conte di Adernò, che era la carica istituzionale di maggior peso dopo la sua, e la prima “indigena”. Era l’unico viceré che addirittura era stato nominato a vita, ma le proteste dei Siciliani valsero a farlo deporre, mentre era in Catalogna, ed arrestarlo. Dopo di lui, dal De Acuña in poi, il mandato fu rigorosamente triennale, con possibilità di rinnovo alla scadenza. Sarebbe toccato a questi gestire la complessa espulsione degli Ebrei di cui si è detto e al suo successore, il La Nuza, le complesse fasi dell’appoggio siciliano alla riconquista aragonese del Regno di Napoli, sottratto alle mire francesi, nonché una effimera (1497) occupazione di Gerba.
Un tentativo del procuratore fiscale di verificare la legittimità dei titoli con cui i baroni detenevano i loro feudi, sotto il viceregno di Raimondo Cardona (1508), soltanto omonimo del viceré dei tempi di re Giovanni, ebbe come unico esito una rivolta baronale e, alla fine, la rimozione e sostituzione dello stesso viceré. Non essendo un re siciliano, alla fine, Ferdinando finiva per sconfessare, almeno in parte, i suoi stessi ufficiali che volenterosamente avrebbero inteso ristabilire i diritti dello Stato, della legge, rispetto ad abusi che risalivano alle terribili guerre civili di fine Trecento. Del resto sulla questione lo stesso Alfonso il Magnanimo aveva dapprima tentato di porre ordine e poi concesso, con una sorta di “colpo di spugna”, che i diritti acquisiti e non ripresi dall’erario durante la restaurazione dei Martini, restassero ai baroni. Ancora una volta la mancanza di una dinastia propria si rivelava un ostacolo ad un normale sviluppo della Nazione, che pure, tra alti e bassi, si avviava lentamente ad entrare nell’era moderna.
Al posto del Cardona fu inviato Ugo Moncada (1509), il quale, primo tra i viceré, assunse anche il titolo di “Capitano generale del Regno”, mentre le cariche di Gran Conestabile e Grand’Ammiraglio cadevano in disuso. La concentrazione del potere militare, oltre che di quello civile, direttamente nelle mani del viceré si rendeva indispensabile giacché la Sicilia ormai era diventata un avamposto nella lotta contro gli Ottomani. Già la Sicilia aveva aiutato, inutilmente in verità, la Repubblica di Venezia nella difesa di “Negroponte” (l’odierna isola di Eubea in Grecia), e poi Napoli durante la breve occupazione turca di Otranto (1480/81). Ora aiutava l’Aragona nel tentativo di “reconquista” del Nordafrica.
Nel 1510 è espugnata Tripoli, che Ferdinando assegna proprio al Regno di Sicilia. Lo stesso Moncada si trasferisce per qualche tempo a Tripoli per fortificarla.
I suoi metodi dispotici, tuttavia, non risultarono graditi all’interno di un Regno ormai abituato alla forza delle leggi nazionali e del Parlamento.
Cronologia politica:
1412-1416 Ferdinando I (vicaria la regina Bianca di Navarra fino al 1415, Giovanni Trastàmara, il futuro re, dal 1415)
1416-1458 Alfonso (vicario Giovanni Trastàmara fino al 1416)
Viceré:
1416-1419 Domenico Ram e Antonio Cardona
1419-1421 Antonio Cardona, Ferdinando Velasti e Martino de Turribus
1421 Governo diretto di re Alfonso in Sicilia
1421-1422 Giovanni de Podio Nuchi, Arnaldo Ruggiero de Pallas e Niccolò Castagna.
1422-1423 Giovanni de Podio Nuchi, Arnaldo Ruggiero de Pallas e Ferdinando Velasti
1423-1424 Niccolò Speciale
1424-1425 Pietro Trastàmara, “vicario” (fratello di Alfonso, non viceré)
1425-1429 Niccolò Speciale
1429-1430 Niccolò Speciale e Guglielmo Moncada
1430-1432 Giovanni Ventimiglia, Niccolò Speciale e Guglielmo Moncada
1432-1435 Pietro Felice e Adamo de Asmundo, “Presidenti del regno” (presente re Alfonso in Sicilia)
1435 Pietro Trastàmara, vicario
1435 Ruggiero Paruta
1435 Antonio de Cardona, Adam de Asmundo, Leonardo di Bartolomeo e Battista Platamone, presidenti del Regno
1435 Pietro Trastàmara, vicario
1435-1438 Ruggiero Paruta e Battista Platamone
1438-1439 Ruggiero Paruta
1439-1440 Bernardo Requesens
1440-1441 Gilberto Centelles e Battista Platamone
1441-1443 Raimondo Perellos
1443-1445 Ximen de Urrea
1445-1458 Lopez o Lupo Ximenes de Urrea, sostituito talvolta dai seguenti “presidenti”:
1446-1447 Antonio Rosso e Spadafora, presidente del Regno
1449 Collegio di 12 magistrati, congiuntamente presidenti
1450 Simone Bologna, presidente
1452 Antonio Rosso e Spadafora, presidente
1453-1455 Simone Bologna, presidente
1456-1457 Antonio Rosso e Spadafora, presidente
1458-1479 Giovanni
Viceré:
1458-1459 Lupo Ximenes de Urrea (in continuità)
1459-1462 Giovanni de Moncayo
1462-1463 Guglielmo Raimondo Moncada, presidente
1463-1465 Bernardo Requesens
1465-1475 Lupo Ximenes de Urrea (di nuovo)
1475 Giovanni Tommaso Moncada, presidente
1475-1477 Guglielmo Pujades e Guglielmo Peralta
1477-1479 Giovanni Cardona
1479-1516 Ferdinando II (associato al trono dal 1474)
Viceré:
1479 Giovanni Tommaso Moncada, presidente
1479-1484 Gaspare de Spes
1484-1485 Raimondo Santapau e Giovanni Valguarnera, presidenti
1485-1487 Gaspare de Spes
1487 Raimondo Santapau e Giuliano Centelles, presidenti
1487-1489 Giuliano Centelles, presidente
1489-1494 Ferdinando de Acuña
1494-1495 Giovanni Tommaso Moncada, presidente
1495-1506 Giovanni La Nuza
1506-1507 Giovanni Paternò, presidente
1507-1509 Raimondo de Cardona
1509 Giovanni Paternò e Guglielmo Raimondo Moncada, presidenti
1509-1512 Ugo de Moncada
1512-1513 Bernardino Bologna, presidente, vicepresidente Pietro Sanchez de Calatayud
1513-1516 Ugo de Moncada
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