Mafia siciliana e Ndrangheta calabrese: un fossato incolmabile?
Mi ha colpito la notizia di qualche tempo fa, dell’esistenza di una cantante calabrese che apertamente inneggia alla Ndrangheta.
Sgombriamo il campo intanto dalle ovvietà.
Una di queste è l’indignazione generale che una cosa del genere suscita. Ovvio che ci indigniamo, si tratta di una forma di sottocultura semplicemente inaccettabile, come i matrimoni spettacolari dei Casamonica a Roma.
Un’altra ovvietà è che questa sottocultura non può rappresentare neanche minimamente la popolazione calabrese. Solo uno ‘sporco razzista’ potrebbe permettersi generalizzazioni del genere. Ovvio che i Calabresi sono un’altra cosa. Ci mancherebbe. Anche solo ribadirlo mi pare offensivo.
Se scriviamo due righe non possiamo ripetere quello che sentiremmo in qualunque bar dello sport. Vediamo di andare avanti, perché il fenomeno è davvero singolare e merita una riflessione.
Quello che ci chiediamo è:
- come è possibile che questa cultura arrivi ad essere ufficiale, addirittura nei testi delle canzoni? davvero è andato tanto indietro lo Stato nel controllo di questi territori?
- ma in Sicilia una cosa del genere sarebbe lontanamente possibile, pensabile, anche nella più degradata retroguardia sociale, ostaggio di Cosa Nostra?
Le domande a me non sembrano oziose, perché ci fanno capire meglio che cosa è diventato il Mezzogiorno d’Italia dopo più di un secolo e mezzo di colonizzazione interna, e quale sia la peculiarità della Sicilia all’interno di questo panorama cripto-coloniale.
Riguardo alla prima domanda, beh, non è sorprendente che le mafie abbiano una loro subcultura. E non c’è niente di strano che questa sia derivata, spesso per degenerazione, dalla cultura popolare. Già Falcone, grande conoscitore dell’antropologia mafiosa oltre che magistrato inquirente, una volta ebbe a dire che i valori della mafia tradizionali altro non erano che una degenerazione di antichi valori popolari siciliani, niente affatto negativi: l’amicizia, l’onore, la solidarietà, il coraggio,…
Ma fino ad ora questo lo sapevamo. Negli ultimi anni, ad esempio, la subcultura canora mafiosa si è appropriata della canzone neomelodica, che ovviamente ha rappresentanti alti di tutto rispetto che nulla hanno a che fare con questo malaffare. Per essere molto chiari, Gigi d’Alessio non c’entra proprio nulla. Anzi, piaccia o no, ha traghettato, come del resto Nino D’Angelo qualche decennio prima, ma in maniera più decisa, la vecchia canzone melodica nella musica leggera italiana. No, non mi riferisco a questo genere, ma a un sottobosco di cantanti prima ignoti, fioriti come l’erba spontanea e incolta per lo meno dagli anni ’80, sconosciuti ai più, ma noti nelle borgate a più alta densità mafiosa. Anche lì, nessuna criminalizzazione preventiva, ma oggettivamente il genere è stato fatto oggetto di preferenza di un mondo tanto culturalmente semplice, quanto deviato e brutale.
Colpisce, ad esempio, che questo sottobosco abbia comportato nell’area metropolitana di Palermo la progressiva sostituzione del Napoletano al Siciliano come lingua canora (beh, meglio per noi, a un certo punto, visti gli usi aberranti).
Ma, con tutti i limiti, i temi di questo genere, artisticamente assai mediocri in genere se posso aggiungere, sono inoffensivi: storie d’amore, vita di tutti i giorni,… In questo modo si poteva creare una sorta di “patto” tra le élite criminali e il sottoproletariato che le alimenta fondato sulla condivisione di piccole faccende quotidiane. Mai, però, la canzone ultrapopolare si era trasformata in “ideologia mafiosa”. Questo passaggio era ed è sempre stato sbarrato da non pochi ostacoli.
La Merante, invece, ha varcato questa soglia invalicabile. Lo Stato ora non è solo una presenza ostile, è un vero nemico, e il criminale è apertamente un “uomo”, nel senso antico e feudale del termine.
Probabilmente il fenomeno verrà rapidamente represso. Lo Stato ha tollerato (anzi ha creato e usato) le mafie del Sud nella prassi, ma ha sempre salvato la forma. Se si varcano certi limiti è la stessa sovranità italiana ad entrare in discussione in quei territori. E questo non sarà permesso.
Ma è un segnale allarmante. Lo Stato è andato talmente indietro nel più profondo Sud, e segnatamente in Calabria (ma credo che nelle grandi zone urbane campane e pugliesi non sia molto diverso), che si rischia ormai il salto di qualità. La mafia si fa sistema, ideologia, e non ha più neanche bisogno di quello stato che l’ha alimentata, ma tende ora al contrario a sovrastarlo e a sbarazzarsene. La stessa presenza, minoritaria, quanto si voglia, di questi fenomeni, testimonia il totale fallimento dell’Unità d’Italia, che se usassimo la ragione senza pregiudizi sarebbe ormai di tale evidenza da non dover nemmeno discuterne.
Quanto durerà un paese totalmente diviso come il nostro, peraltro ormai prostrato dal regime europeo e quindi sempre più incapace di “pagare” le sottili strutture collaborazioniste che in loco lo tengono unito? Non lo so. So che per la deflagrazione definitiva manca la scintilla ideologica. I Meridionali però si sentono italiani quanto e più dei Settentrionali, e finché ciò sarà vero, non rappresentano forse un pericolo.
Anzi, la mancanza di uno spirito identitario locale (non è mai esistita una “nazione calabrese”) non vaccina questi popoli abbastanza contro le devianze come quella rappresentata in foto.
E veniamo ora alla Sicilia, attraversiamo lo Stretto.
Sarebbe possibile una Merante che inneggia a Cosa Nostra in Sicilia?
La risposta è secca e inappellabile: NO! Neanche al Borgo Vecchio o allo Zen di Palermo. In Sicilia dalla morte di Falcone e Borsellino è successo qualcosa da cui non si torna più indietro. La coscienza civica ormai ha preso una piega irreversibile. Non c’è alcuna altra spiegazione dell’inesorabile declino di Cosa Nostra e delle altre combriccole autonome dell’Agrigentino o di Gela, sempre più gang di delinquenti allo sbaraglio e sempre meno “mafie” nel senso classico del termine. Non c’è altra spiegazione, soprattutto se pensiamo che la Sicilia è ancora più sfruttata e negletta delle regioni meridionali, e se pensiamo che nel frattempo le mafie continentali, Ndrangheta in testa, godono di ottima salute e si mangiano pezzi dello Stato.
Oggi non solo un cantante siciliano che facesse una cosa del genere sarebbe isolato (come lo è, credo e spero, la Merante in Calabria), ma sarebbe addirittura aggredito e rigettato.
Di questo ne sono sicuro. La Sicilia, pur nella polvere, pur non avendo alcuna rappresentanza politica, pur essendo strangolata dallo Stato italiano, ha oggi un patrimonio immateriale spirituale che in passato era meno nitido.
La Sicilia di oggi ha un patrimonio morale identitario che, al di là dello Stretto, ancora è molto al di là da venire. I Siciliani hanno scoperto, stanno scoprendo, sia pure lentamente, di essere un Popolo a sé, e di non avere altri amici se non se stessi. Non certo lo Stato italiano. Molte vicende, dal disprezzo dei media quando ci fu la frana di Giampilieri, al minuto di silenzio “solo nei campi siciliani”, e via via fino alle promesse del “Ponte che rende italiani al 100% i Siciliani”, fino all’ultima drammatica vicenda dei pescatori siciliani dimenticati in Cirenaica, liberati solo per l’intervento russo sollecitato da una misteriosa lettera proveniente dalla Sicilia stessa. Tutto fa capire ogni giorno ai Siciliani che l’Italia si occupa a malapena, anzi per nulla, di loro, e che sono un Popolo a sé stante.
Questa identità ha un effetto positivo insperato. Il Siciliano finalmente ha capito o sta capendo. Sta capendo che la mafia è il principale frutto avvelenato dell’Unità d’Italia, anzi dell’annessione all’Italia; un frutto avvelenato, si capisce, che si è potuto innestare nella putrefazione del sistema feudale, e quindi di origine locale, ma pur sempre sotto la benedizione esterna. Non fosse stato per le Due Sicilie prima e per l’Italia dopo, il vecchio feudalesimo, e anche quei valori popolari positivi di cui parlava Falcone, si sarebbero evoluti come in tutta Europa in uno stato e in una nazione moderna e normale. L’Italia ha impedito questo sviluppo, bloccando la Sicilia in un costume feudale (ancora ben vivo nella nostra politica, ad esempio), che ha preso fatalmente una degenerazione criminale.
I Siciliani, ancora confusamente, capiscono, capiscono che le benedizioni a questi criminali che hanno impedito il nostro sviluppo vengono da fuori, da Roma e dal Nord per l’esattezza. Lo hanno capito anche Ficarra & Picone, pur sotto il velo di una cultura molto politicamente corretta e “di sinistra”, che nel film “L’ora legale”, dopo non pochi luoghi comuni antisiciliani, chiudono significativamente con la “VERITÀ”: a capo di tutto un mafioso, un politico romano, e le forze dell’ordine. Lo Stato! Conclusione clamorosa che non sarà sfuggita agli occhi più attenti.
Questo sentire confuso è il nostro antidoto, il nostro vaccino contro le suggestioni mafiose, ormai tramontate. E questo mi fa ben pensare e sperare.
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