Breve storia delle banche siciliane fino al regalo delle competenze allo Stato da parte di Lombardo-Armao
Chi mi segue (i miei 24 lettori, uno meno di quelli di Manzoni, per dovuta modestia), mi avrà spesso sentito parlare dei regali di Crocetta, macroscopici, alla finanza dello Stato, poi avallati da Musumeci, senza muovere un mignolo. Musumeci, proprio quello che ha anche retrocesso graziosamente Riscossione Sicilia allo Stato. Poi mi avrete sentito parlare di Schifani, che regala in un colpo solo tutte le accise spettanti alla Regione dal 2007 e 2021. Mi avrete anche sentito dire che Lombardo aveva tentato, unico da chissà quanto tempo, di attuare in modo sostanziale l’autonomia finanziaria della Sicilia, e per questo era stato punito, e secondo me in questo c’entrava anche la falsa accusa di essere mafioso.
Ma non vorrei che i miei amici lettori per questo pensassero che Lombardo e Armao fossero una sorta di Fidel Castro e Che Guevara dell’Autonomia siciliana. Ne chiesero attuazione per alcuni limitati segmenti, ma capitolarono su altri fronti, magari per ragioni tattiche, non so, ma tant’è. La storia che vi racconto oggi riguarda un tema delicatissimo: le competenze della Regione in materia bancaria.
Premessa: la Banca non è solo un fondamentale intermediario del credito, ma è un ente, ancorché privato, cui è demandata la funzione fondamentale di emettere la moneta usata da un sistema economico. Attraverso i meccanismi di creazione della moneta e di erogazione del credito, è uno strumento essenziale per lo sviluppo di un sistema economico moderno. Senza banche, o senza il controllo del settore bancario, nessuna Autonomia è sostanzialmente possibile, e questo i Padri Statutari lo sapevano benissimo. Fine della premessa.
La Sicilia, nei secoli dell’Antico Regime, aveva una storia bancaria all’avanguardia e di tutto rispetto. Il Banco comunale di Trapani, il cd. “Banco della Prefetia”, sorto nel 1459, è la terza banca pubblica al mondo, dopo la Taula de Canvi di Barcellona, in Catalogna, e il Banco San Giorgio di Genova. Ma se il banco di Trapani ha una storia municipale e tutto sommato oscura, non così i successivi banchi comunali (Tavole) di Palermo e di Messina, fondate rispettivamente nel 1551 e nel 1587, con tanto di autorizzazione regia. A questo si aggiunga, per quello che oggi chiameremmo il “microcredito”, il Monte di Pietà di Palermo, già dal 1500. Le due Tavole sopperivano all’instabilità dei banchi privati (in pratica poco più che usurai), e mettevano in circolazione una primitiva forma di carta moneta, sostitutiva del denaro metallico. Erano banchi di deposito puri, non svolgendo quindi funzioni di credito, ma per quell’epoca era già tanto. Sul loro modello ne sorsero poi tanti in Italia e in Europa. Il modello dei banchi di deposito tramontò ai primi del 1800, quando si diffuse il modello della banca commerciale.
La Tavola di Palermo in breve divenne molto più che una banca comunale; divenne di fatto la Banca centrale del Regno di Sicilia, nei cui depositi si svolgevano tutte le operazioni del Governo dello Stato di Sicilia.
Durante l’epoca napoleonica i suoi depositi furono saccheggiati dal Governo napoletano in esilio per finanziare la guerra e in pratica mai più restituiti, se non poco e male, dal Banco di Napoli, in parte addirittura dopo il 1860.
A Napoli, in era murattiana, i corrispondenti banchi di deposito erano stati fusi in un unico grande istituto bancario, con funzioni anche di Monte di Pietà: il Banco delle Due Sicilie. Questo aveva anche una sezione per lo sconto commerciale, era cioè impostato come una banca moderna, ma al contempo non aveva autonoma personalità giuridica, era cioè una branca dell’Amministrazione pubblica.
Dopo lo scioglimento del Regno di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie, il governo si adoperò subito per fare “chiudere” le due/tre banche storiche siciliane (quella di Trapani si spense da sola, nei primi decenni del 1800, certamente anche per le “attenzioni” del nuovo governo). Un governo, una banca. Del resto c’erano i diversi sportelli a Napoli, ma non nel resto del Regno. A Bari sarebbe stata aperta una succursale, ma in Sicilia era diverso. In Sicilia c’erano le due Tavole, ancora pienamente funzionanti.
Nel 1843 a Palermo il Banco delle Due Sicilie aprì, così, una “Reale cassa di corte”, in pratica oggi si direbbe una “controllata”, perché dotata di una certa autonomia finanziaria e contabile, ma sempre inquadrata nella burocrazia pubblica. Questa, cominciò ad assediare la Tavola: i titoli del Banco delle Due Sicilie giravano più facilmente di quelli della Tavola di Palermo. Gli incassi e i pagamenti pubblici dovevano passare obbligatoriamente dal Banco delle Due Sicilie.
La Tavola di Palermo sopravvisse, però, come tesoreria del Comune di Palermo, delle numerose confraternite ed opere pie, nonché, per inerzia, di molti privati. Per la Tavola di Messina, più piccola, si optò per un assorbimento per trasformazione. Nel 1846 fu sciolta e trasformata anch’essa in “Cassa di Corte” del Banco delle Due Sicilie, con ordinamento analogo a quella di Palermo.
Poco dopo la Rivoluzione indipendentista (1848).
Dobbiamo a questa la nascita del Banco di Sicilia. Il Governo rivoluzionario confisca a Napoli le due Casse di Corte e le nazionalizza nel Banco Nazionale di Sicilia, istituto pubblico di emissione del neonato governo nazionale siciliano, con l’intento che non si ebbe il tempo di realizzare di trasformarlo in moderno istituto di credito (le due casse di corte erano ancora solo banchi di deposito e circolazione, mentre a Napoli si praticavano operazioni di prestito).
Nel 1849, dopo la sconfitta, negli accordi di resa, fu garantita la sopravvivenza del Banco, come istituto di emissione separato, e con funzioni di credito e non solo di deposito. Ciò che si completò entro l’anno dopo, quando l’amministrazione del disciolto “Banco Nazionale” fu trasformata nel “Banco dei Regi Dominii al di là del Faro” (1850), giacché l’amministrazione borbonica aveva l’ittero a pronunciare la parola Sicilia.
Le soverchierie da Napoli, comunque, non mancarono. Il Banco di Sicilia, chiamiamolo già così, emetteva sì titoli, ma a Napoli non erano riconosciuti, mentre doveva accettare i titoli emessi dal Banco delle Due Sicilie. Le emissioni dovevano essere con una riserva metallica pari al 100%, mentre a Napoli potevano limitarsi al 50%. Le funzioni di sconto, su Palermo e su Messina, furono tardate moltissimo ad essere concesse, e in pratica si avviarono solo alla vigilia della spedizione garibaldina. La Tavola Comunale fu fatta chiudere con una legge che imponeva a tutti gli enti locali e le opere pie di tenere i depositi presso il Banco (di Sicilia) di proprietà governativa; i suoi dipendenti buttati in mezzo alla strada dalla sera alla mattina, i depositi garantiti solo in parte, con una squallida operazione di bail-in. La “Cassa di Risparmio”, a lungo invocata dai Siciliani, fu altrettanto a lungo preparata, ma senza alcuna particolare solerzia, al punto che quando fu finalmente istituita c’era già Garibaldi (1860), che non fece altro che raccogliere il frutto di questa lunghissima preparazione, e intestarla a Vittorio Emanuele, il nuovo conquistatore. Nel frattempo Vincenzo Florio aveva costituito la sua banca privata, la Banca Florio appunto, di tutto rispetto.
Con tutto ciò il Banco mise radici, conquistò la fiducia dei Siciliani, il suo giro di affari crebbe, i suoi titoli erano accettati come carta moneta (questi titoli, o i loro eredi, i “polizzini”, avrebbero girato sino agli anni ’70 del 1900, menzionati pure dal codice civile e leggi allegate, e ne conservo qualche ricordo da piccolo). Si deve all’amore per la propria terra dei suoi dirigenti e al lento ma inevitabile sviluppo economico della Sicilia di quegli anni, unito alle condizioni di sostanziale monopolio di cui fruiva, se il Banco crebbe e divenne sempre più rispettabile e insostituibile.
Con l’Unità d’Italia vennero altre vessazioni, ma il sistema bancario siciliano, da solo, davvero da solo, senza nessun aiuto del Governo o quasi, resistette e crebbe. Ignazio Florio propose di ampliare il proprio Banco ad altri sottoscrittori e farne un istituto di emissione privato, sul modello già operante in Toscana o in Piemonte-Liguria. Ma il nuovo Governo non volle. Persa questa occasione il Banco Florio progressivamente sarebbe stato assorbito dalla finanza romana, sino a scomparire lentamente.
Cavour e i suoi successori avrebbero voluto un banco di emissione unico. Gli anni dal 1860 al 1866, quando il Banco di Sicilia fu finalmente scorporato dall’amministrazione pubblica (era anche chiamato per questo “Regio Banco”) e costituito in “ente morale”, furono durissimi. Ci fu persino chi parlò di soppressione del Banco, peraltro saccheggiato da Garibaldi, tanto per cambiare.
Alla fine, sarà stato per la durissima resistenza della Sicilia politica di allora, sarà stato perché in Italia c’erano tanti istituti di emissione (il riconoscimento dell’autonomia del Banco di Napoli era già arrivata nel 1863, inevitabile perché più robusto, allora, della stessa Banca Nazionale poi privilegiata), e non solo il Banco di Sicilia sopravvisse, ma fu eletto tra gli istituti di emissione di banconote in Italia, seppure in una posizione subalterna rispetto alla Banca Nazionale, che nel frattempo aveva aperto bottega in Sicilia.
Non al Governo, ma a uomini della tempra di Amari (Paolo, da non confondere con i più noti Michele ed Emerico), Radicella, Notarbartolo, si deve se il Banco di Sicilia divenne uno dei banchi pubblici, con una governance in gran parte anche locale, cioè siciliana, a servizio di una grande potenza industriale. Aprì a Catania, e poi nelle province minori, e poi a Roma, e così via.
Non mancarono le battute d’arresto e le contraddizioni. Ma resistette benissimo allo scandalo della Banca Romana, e quando tutti gli istituti di emissione furono accentrati nella nuova Banca d’Italia, solo, insieme al Banco di Napoli, con cui i rapporti erano migliorati dopo la “conquista” sabauda, sopravvisse come istituto di emissione nel 1893.
Il Banco di Sicilia, tramite il Banco di Tripoli, ebbe il compito di “bancare” la Colonia libica, ed era quindi un istituto di massimo rispetto. Ogni tanto qualcuno, come lo stesso Crispi, tentò un’aggressione contro lo stesso, volendone limitare l’azione al credito agrario, o qualcosa del genere, ma il Banco resistette sempre. Nessuno mi toglie dalla testa che, al di là dei motivi contingenti, la vera ragione dell’uccisione di Notarbartolo era che il Banco lo stava facendo crescere un po’ troppo per i desideri della grande finanza nazionale italiana. Per quale ragione il presunto mandante “locale”, il politicante Palizzolo, alla fine, non trovò mai a Roma la condanna definitiva? Di quali coperture statali godevano i mafiosi locali che mal vedevano un uso indipendente e rigoroso della finanza pubblica in Sicilia? Non lo sapremo mai probabilmente.
Le funzioni di banca che batteva moneta – stampava banconote in lire per essere chiari – non potevano sopravvivere all’accentramento fascista. Nel 1926 le sue riserve auree e valutarie furono confiscate e trasferite su vagoni blindati a Roma, tolte alla Sicilia senza alcun compenso. In compenso, nel 1936, quando la Banca d’Italia fu finalmente nazionalizzata, una quota significativa del suo capitale venne data proprio al Banco, cui era riconosciuto quanto meno un ruolo di stakeholder molto importante.
E veniamo alla nascita della Regione siciliana. Il recupero delle funzioni bancarie, da parte della Regione, era visto come una riappropriazione della sovranità in un campo fondamentale quale quello bancario.
Per questa ragione si pensava di ricostruire le riserve valutarie del Banco di Sicilia (art. 40) in modo che partecipasse, con la Banca d’Italia, all’emissione della valuta legale pro quota, come era stato sino al 1926, potendo destinare eventuali eccedenze del reddito di signoraggio ai fabbisogni della Regione. Per questo le funzioni legislative in materia di credito furono attratte alla Regione, non solo di credito rurale, cooperativo, artigiano, locale, no! Tutto il credito diventa materia di legiferazione dell’ARS, pur tuttavia concorrente, e quindi nel rispetto dei “principi ed interessi generali” della legislazione italiana, e ovviamente di quanto fissato in Costituzione. Poi, sul piano amministrativo, tutte le relative funzioni esecutive, e quindi anche la vigilanza e le autorizzazioni sul credito, passavano in mani regionali.
In effetti il Banco di Sicilia, mantenendo la struttura di istituto di credito di diritto pubblico, divenne la longa manus della Regione. Operava sul mercato, ma partecipava al capitale di Banca d’Italia, di fatto emetteva moneta bancaria, finanziando i deficit della Regione, a interesse insignificante. In pratica allora la Regione non aveva bisogno di alcun rating. Chi sa un po’ di teoria monetaria sa che ciò equivaleva a battere moneta, non legale, come le banconote, ma bancaria, cioè di fatto ugualmente legale e solo teoricamente fiduciaria. Nel frattempo anche la Cassa di Risparmio era cresciuta e prosperata, la Sicilcassa, secondo istituto di credito dell’Isola. Ed era fiorito, prima, ma soprattutto dopo la Guerra, un vero e proprio articolato sistema bancario siciliano, fatto di banche cooperative, casse di risparmio, banche private, casse rurali ed artigiane. La Sicilia, degli anni ’50 era finanziariamente autonoma. Naturalmente c’erano anche le filiali delle maggiori banche italiane, ma tra le altre. La Cassa di Risparmio si era radicata soprattutto nel territorio, ma con una presenza a Roma e a Miliano. Il Banco era diventato una banca di orizzonte internazionale. Ben presente un po’ in Italia, soprattutto nel Triveneto (oltre che in Sicilia). Di fatto gli Istituti di Credito di Diritto pubblico si erano divisi in oligopolio il territorio dello Stato, e il Banco era tra questi. Ma c’erano anche filiali e succursali all’estero, in Europa e nel mondo, dagli Stati Uniti a Singapore.
La Regione non aveva tardato a prendersi le funzioni in materia bancaria. Già nella II legislatura, con il Presidente Restivo, quello che con un sistema elettorale parlamentare e presidenziale riuscì a tenere un governo per tutta la legislatura dal 1951 al 1955, quello che in maggioranza aveva pure i deputati indipendentisti, seppure il movimento, in piena autonomia attuata o in corso di attuazione, si andava rapidamente liquefacendo. Sotto la presidenza Restivo fu emesso il DPR 1133 del 1952, con cui la Regione, letteralmente, si prendeva il settore delle banche in Sicilia.
Leggiamone alcune chicche.
Art. 1: Al posto del CICR (comitato interministeriale del credito e risparmio) c’era il CRCR (comitato regionale omonimo, con le stesse funzioni). Il CICR in Sicilia non metteva naso.
L’Assessore alle finanze ha in Sicilia i poteri che ha in Italia, in materia bancaria, il Ministro del Tesoro e, udite udite, il “Governatore della Banca d’Italia”!
Art. 2: Tutti gli istituti operanti esclusivamente operanti in Sicilia erano ordinati, autorizzati, vigilati, esclusivamente dal suddetto Comitato Regionale e non dal CICR o dal Governo italiano o dalla Banca d’Italia.
Art. 3: Gli organi statali si limitano a dare “pareri vincolanti” sui progetti di provvedimenti della Regione, ma solo in alcuni casi. Vige comunque il silenzio-assenso.
Art. 4: Per le banche maggiori (istituti di credito di diritto pubblico, BIN, etc.) decideva sì il Ministro del Tesoro, ma “d’intesa con il Presidente della Regione”.
Art. 6: Le banche esterne “richiedono l’autorizzazione” alla Regione per aprire lo sportello in Sicilia.
Di fatto, quindi, tutte le banche siciliane, anche le maggiori, erano soggette alla vigilanza regionale. Le “forestiere” erano soggette ad autorizzazione, ma restavano sotto la vigilanza statale, le maggiori siciliane erano soggette, nelle maggiori decisioni, ad un processo di codecisione Stato-Regione.
Parliamoci chiaro: in questo processo di “codecisione” si era già un passetto indietro rispetto al dettato dello Statuto che sulla materia attribuiva ogni compito amministrativo esclusivamente alla Regione, e ne faceva rispondere solo all’Assemblea. Ma tutto sommato era un punto di equilibrio accettabile.
Cosa è successo poi?
La legge Amato-Carli (sì, quell’Amato là, sempre lo stesso) privatizza tutto il sistema bancario italiano nel 1990. Dal 1993, con il nuovo Testo Unico Bancario, le banche non erogano più un servizio pubblico, ma sono imprese come tutte le altre. Non hanno perso tempo dopo la caduta del Muro di Berlino. E questo che c’entra con il sistema bancario siciliano direte? Non c’era il DPR del 1952 a difenderci?
Semplicemente se ne sono fregati.
Sotto la regia della Banca d’Italia e con la complicità di una Regione imbelle, parte l’assalto al sistema bancario siciliano, che viene smantellato o ridotto a dimensioni provinciali insignificanti, in 10 anni al massimo.
In quel momento sarebbe servito un Governo Regionale autonomo, ma non c’era. Non c’era un partito autonomo. I politici siciliani giocavano a fare gli autonomisti dentro i partiti italiani. Fino ad allora il metodo DC aveva funzionato, perché non avrebbe dovuto continuare a funzionare ancora?
Del resto la legislatura eletta nel 1991 in Sicilia fu “sbaraccata” dalla Magistratura. Nessuno mi toglie dalla testa che questo “assalto alla politica” è servito per fare capire che ormai in Sicilia non c’era più spazio per i vecchi accordi autonomistici, esattamente come a Roma e Milano “mani pulite” rappresentava la fine dell’autonomia della politica rispetto a soggetti internazionali ormai padroni dell’agenda. Ormai si stava entrando nell’era della globalizzazione, e il potere globale non aveva più bisogno di intermediari locali (mafia inclusa, nota bene, vedi uccisione di Lima). La Sicilia, indifesa, diventa terra di conquista ancor più della stessa Italia.
La più grande Banca Popolare, la BPS, nata a Canicattì, fiore all’occhiello del cooperativismo siciliano, venne colpita per prima, scalata dal Monte dei Paschi di Siena, che di colpo diventò così il terzo istituto di credito dell’Isola già nei primi anni ’90. In seguito avrebbe trattato la Sicilia come una colonia. Cacciati i mafiosi “Salvo” dalle esattore Se.Ri.T. sarebbe stato sempre il Monte dei Paschi, in area politica “sinistrese”, ad ereditare le esattorie, ormai “Montepaschi Se.Ri.T.”, salvo poi uscirne, ai primi del millennio, quando l’agenzia fu regionalizzata (Riscossione Sicilia), ma scaricando sulla stessa una valanga di proprie passività, in modo da condannarla ad una vita grama sin dall’inizio, e infine alla svendita, anzi al regalo, all’Agenzia delle Entrate.
Il colpaccio avvenne però nel 1997: due banche al prezzo di una. La Sicilcassa, malgestita dalla politica locale negli ultimi tempi, malvigilata (di proposito, secondo me) da Regione e Banca d’Italia, si trova in difficoltà. Anzi, diciamola tutta. La politica industriale della Seconda repubblica distrugge deliberatamente i maggiori debitori della Cassa: i Cavalieri di Catania e l’industriale palermitano Cassina. Distruggendo l’imprenditoria industriale siciliana, si travolge anche l’istituto che più di altri aveva fatto loro credito. Anzi, tale credito, un tempo strumento di sviluppo e occupazione, ora diventa reato, perché causa di bancarotta. In un colpo solo si azzera l’industria e la banca siciliana, che erano così faticosamente cresciute nonostante un secolo e mezzo di colonizzazione interna.
Anziché farla scalare (come la Banca Popolare Siciliana) da una banca italiana, la si fa scalare al Banco di Sicilia. Ma questo, che al momento non conosceva alcuna crisi, non ha il capitale necessario. Così deve fare un aumento di capitale, riservato a Capitalia, che entra come socio controllante. Il Banco di Sicilia, così, nel 1997 diventa una controllata di Capitalia, con qualche patto parasociale transitorio per mantenerne l’identità e la funzione in Sicilia. Il Banco di Sicilia, così abbattuto, nonostante le sue funzioni pubbliche e addirittura costituzionali, assorbe gli sportelli della Cassa di Risparmio, che viene per contro messa in liquidazione coatta, fatta fuori. Dopo il grande sviluppo che aveva conosciuto nel Dopoguerra.
Ma anche per il Banco di Sicilia, così ridimensionato, gli anni erano contati. La gallina a poco a poco viene spennata. Le partecipazioni di Fondazione e Regione cedute alla controllante (che lo diventa al 100%) in cambio di una partecipazione irrisoria al capitale della società controllante.
Capitalia poi, nei vari processi di fusione, sarebbe confluita nella banca globale Unicredit, ormai lontana dalla Sicilia come la Luna.
La Fondazione “Banco di Sicilia”, perso ogni contatto con il mondo bancario, sarebbe diventata semplicemente “Fondazione Sicilia”. La Regione, per cercare di salvare il salvabile, riesce a uscire ritagliandosi solo la proprietà sulla società di Mediocredito costruita negli anni ruggenti dell’Autonomia: l’IRFIS. La Regione conserva l’IRFIS, di impatto assai modesto, e gli istituti per il controllo del credito cooperativo, rurale e artigiano (Crias/Ircac).
Il grande Banco è fagocitato da Unicredit.
Con il tempo diventa la controllata che opera in esclusiva in Sicilia, perdendo ogni sede esterna. Ma comunque in qualche modo sopravvive. Però le funzioni sono via via accentrate.
Nel 2010, infine, scaduti i patti parasociali, il Banco si dissolve dentro Unicredit. Qua e là resta per qualche tempo l’insegna, il marchio, come una mummia, uno zombie di un corpo ormai svuotato e manovrato da altri.
E i decreti del 1952, direte? Carta straccia, chi se ne frega. Nulla poté, o volle, il Governo Lombardo, teoricamente autonomista, insediatosi nel 2008.
Anzi, trovando forse imbarazzante il vecchio DPR, l’Assessore e Vicepresidente Armao strombazzò ai quattro venti che, in materia bancaria, si era fatto un “nuovo” decreto attuativo, sostitutivo di quello “superato”.
In pratica, e per pietà non entro nei dettagli, questo decreto non fa altro che riconoscere alla Regione, COME A UNA QUALUNQUE REGIONE A STATUTO ORDINARIO, modestissimi poteri amministrativi e delegati sulle banche strettamente locali. Sì, il successo era questo, che il potere “ordinario”, riconosciuto a tutte le Regioni in materia di credito locale dalla riforma costituzionale del 2001, in Sicilia Armao non se lo è fatto scippare. Almeno quello.
Tutto il resto, cioè il sistema bancario autonomo previsto ancora oggi dallo Statuto teoricamente vigente, viene sepolto senza rimpianti.
In pratica conserva qualche potere rigorosamente solo sulle “banche a carattere regionale”, che però praticamente non esistono più. E, pure su queste, “l’adozione dei provvedimenti è subordinata al rilascio del parere obbligatorio e vincolante, a fini di vigilanza, da parte della Banca d’Italia” e “restano di competenza esclusiva della Banca d’Italia [cioè della BCE, nostra nota] le valutazioni e le attività di vigilanza anche nei riguardi delle banche a carattere regionale”. Decreto legislativo n. 205 del 2012, decreto legislativo e non più DPR, perché a un certo punto, chissà perché, i decreti attuativi dello Statuto anziché essere approvati dalla Commissione paritetica e firmati dal Capo dello Stato come DPR, sono diventati una “proposta” della Commissione paritetica che va in Consiglio dei Ministri, che paritetico non è, anche se invita il Presidente della Regione nel rango di Ministro per “abbuffuniarlu”, e lì approvati come Decreti legislativi, senza che ci sia mai stata una legge delega.
Da quel momento la Sicilia non ha, di fatto, seppure non di diritto, alcuna competenza significativa, sia legislativa sia esecutiva, in materia bancaria, e, sempre di fatto, non ha più in pratica alcun sistema bancario proprio.
Con la benedizione di Armao e Lombardo, gli autonomisti.
Ma sappiate, cari amici lettori, che senza banche proprie non ci potremo mai risollevare.
E se tentiamo di crearle, ci penserà la “vigilanza” della Banca d’Italia a farle chiudere o a non farle mai decollare.
Questo è, al momento.
Argomento di riflessione per una lobby “siciliana” che avesse a cuore gli interessi della nostra Terra.
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