Contante e Capitalismo – Risposta al Prof. Marino
Il presente articolo costituisce la risposta ad un commento FB del noto storico, Prof. Giuseppe Carlo Marino.
Un utente FB, Giangiuseppe Gattuso, aveva stigmatizzato, sulla sua pagina, l’alleggerimento della stretta sul contante dell’attuale governo (del quale, chi mi segue, sa che non ho alcuna stima). Si sviluppa, come naturale, un dibattito.
In questo dibattito un altro utente, il caro amico Fonso Genchi, posta un mio articolo di questo stesso blog, proprio sul contante.
A questo commento, risponde il Prof. Marino come segue:
«Il collega prof. Costa argomenta con acume ed espone molti argomenti ragionevoli; ma sarebbe disposto a dichiarare che è contrario, decisamente contrario, al sistema capitalistico e saprebbe indicarci, per superarlo, una strada diversa da quella che persino tutti i cosiddetti “riformismi” dopo il 1989 hanno del tutto abbandonato e demonizzato? Vorrei sperare di si, ma ne dubito. Sta di fatto che per difendere, come dice, la nostra “libertà”, in concreto mostra di DIFENDERE ANCHE I MIGLIORI AGI E LA LIBERTA’ DEGLI EVASORI FISCALI APPUNTO DI ….EVADERE!»
Non posso fare a meno di rispondere, intanto riconoscendogli i meriti storici, pur nella divergenza di vedute, poi affido la mia risposta ad un compiuto articolo, ed eccoci qua.
Un’occasione per fare il punto su cosa pensiamo del capitalismo, e su cosa c’entra il contante con tutto ciò.
Per completezza do anche le mie risposte su FB:
«Prof. Marino… “rispuos’io lui con vergognosa fronte”, è proprio lei? Il famoso storico, autore de “L’ideologia sicilianista” e “Storia della mafia” e tanto tanto altro? Quale onore. Lei fu presidente di Commissione nell’a.s. 1984/85 e corresse personalmente il mio tema di storia di maturità, l’unico di tutto l’istituto, sulla concezione di Europa in Metternich e Mazzini, mettendomi 9 e consigliandomi di continuare con gli studi storici. Cosa che non feci, non del tutto almeno, andando in Bocconi a studiare “Discipline economiche e sociali”, dove c’era un po’ di storia moderna e contemporanea, con De Maddalena e Marzio Romani, che in realtà erano storici economici, ma buttandomi sugli studi di economia politica, politica economica e di matematica applicata. Poi la vita mi ha portato sull’Economia aziendale e la Ragioneria ma non ho mai abbandonato la storia. Sono in partenza per Napoli, dove c’è fra poco il Convegno Biennale della Società Italiana di Storia della Ragioneria, che due anni fa, in piena pandemia, organizzammo a Palermo, purtroppo dirottato su webinar per ovvi motivi. Adesso le rispondo come merita, perdoni l’amarcord, perché anche se mi sono molto discostato dalle impostazioni originarie marxiste nelle quali ebbi la mia primissima formazione, sto parlando con un interlocutore “alto”.
Però, visto che siamo ospiti di Gattuso, non è neanche corretto intasargli la pagina con un commento molto lungo. Faccio un articolo sul blog, di risposta, e lo posto qua.»
Segue, quindi la mia risposta più articolata.
«Io, spero non se ne risenta, la considero uno storiografo marxista ortodosso, nel senso che i giudizi storici da lei dati mi sembrano dati alla luce del fondamentale paradigma marxiano della contrapposizione tra struttura e sovrastruttura e della fondamentale lotta di classe sottostante i più appariscenti fenomeni osservabili.
Per quanto mi riguarda la “lezione” marxista è un passaggio di cui ritengo ancora oggi alcuni fondamentali, ma che per certi versi ho superato presto. I “fondamentali”, tra gli altri, da cui non si può prescindere sono, a mio modesto avviso, almeno due. Una è la chiave di lettura di tutta la storia moderna e contemporanea alla luce del modo di produzione “capitalistico”. Nelle sue diverse fasi il capitalismo spiega davvero tantissimo, fino alla sua fase malata e terminale attuale. Altro aspetto, questo interno alla dinamica capitalistica, è la “profezia” della inevitabile progressiva concentrazione del capitalismo in monopoli sempre più grandi; profezia davvero sotto gli occhi tutti nella sua attuazione. Detto questo però… ci sono molti altri aspetti, sia nella teoria, in particolare in quella economica, sia nella previsione deterministica sugli esiti dialettici della storia, sia nei pericoli per l’individuo e per la sua libertà che tutte le esperienze di marxismo realizzato hanno mostrato, che mi hanno portato ad un “sano” allontanamento da questa prospettiva. Il comunismo si è rivelata una forma di governo e di stato, dal mio punto di vista, aberrante, soprattutto per quanto riguarda il disegno di controllo totale sull’individuo e sulla società che considero disumano (anche se in fondo dilettantesco se paragonato a quanto osserviamo oggi nel capitalismo terminale). Ma non è questo il momento di “fare la barba” a Marx. Tra l’altro “me ne servo” ancora, quando utile, se devo essere intellettualmente onesto. Sto facendo una sottomissione di articolo scientifico ad una importante rivista internazionale, di cui sono autore referente, sull’evoluzione dell’Accounting USA alla luce delle categorie gramsciane della egemonia culturale e del ruolo degli “intellettuali organici”. Ma non divaghiamo, e torniamo al punto.
Il Prof. Marino mi fa due domande, la prima delle quali è il mio giudizio sul capitalismo, e non mi esimo.
Intanto non dobbiamo fare l’errore di confondere capitalismo con mercato.
L’attività economica, fra le altre fasi, non può prescindere dal momento dello scambio della ricchezza prodotta, prima che questa venga consumata. Ogni società ha regolato socialmente il “modo” in cui avvengono gli scambi. In estrema sintesi il mercato è una delle tre forme “base” con le quali in astratto (e in concreto nella storia) può realizzarsi lo scambio. In quanto tale non è mai da demonizzare. In tutte le società c’è sempre stata una forma di mercato in cui avvenivano gli scambi, anche in Unione Sovietica (anche nella Cambogia di Pol Pot, e quando questi tentò di abolire del tutto questa forma di scambio, causò la morte per fame di un terzo della sua stessa popolazione). Il mercato, insieme alla burocrazia e al clan, è una delle tre forme possibili di transazione tra gli esseri umani. Si può decidere “quanto” mercato ci debba essere e “quanto” delle altre forme, ma non si può mai decidere di buttare fuori dalla società del tutto lo scambio fondato sul giudizio di convenienza reciproca delle parti che prendono parte allo scambio.
E c’è di più. Quasi sempre, nella storia, anche molto prima che il capitalismo vedesse la luce, e anche in forme di società molto lontane da quella occidentale, è il mercato, fra le tre, ad essere stata sempre prevalente. In altre parole, anche senza il capitalismo, quasi sempre l’economia è stata un’economia “di mercato”.
La lettura marxista semplifica drasticamente tutto ciò che c’era “prima” del capitalismo, limitandosi ai paradigmi quasi metafisici dell’economia “schiavistica” e di quella “feudale”. Secondo me la realtà pre-capitalistica è tremendamente più complessa e diversificata. In quelle lontane economie, tuttavia, quasi sempre avevamo un’economia di mercato, sia pure non fondata sulla prevalenza del fattore produttivo capitale (e sottinteso capitale in senso monetario/finanziario) su tutti gli altri.
L’economia di mercato, cioè in cui tolta una quota di “doni” solidaristici e un’altra quota di “prelievi coattivi”, il grosso dei beni e servizi circola in continuazione per mezzo di scambi di mercato, è storicamente quella prevalente, e di questo dobbiamo pur farcene una ragione. Possiamo (e dobbiamo) mettere a questa tutti i correttivi che vogliamo, ma non potremo mai eliminarla del tutto senza autodistruggere il sistema economico, e con esso, la stessa umanità.
Ed economia di mercato, significa, quasi sempre e quasi subito, economia monetaria. Perché è inevitabile che lo scambio “merce contro moneta” prevalga sullo scambio di “merce contro merce”, dove “moneta” è qualunque bene, non per forza definito come moneta in senso formale o legale, funga da mezzo di scambio, riserva di valore e unità di conto del valore di scambio. Pare, ad esempio, che nelle più cupe economie curtensi questa funzione, quando circolavano non solo poche monete, ma persino poco metallo pregiato non coniato, fosse svolto, almeno in parte, dal comune sale, giacché di più facile conservazione rispetto ad altri beni deperibili (e così nell’antichità romana, quando ai romani si dava, infatti, il “salario”). In quel caso era il sale ad essere la moneta, così come le sigarette nei campi di concentramento, e così via.
Ancora una volta non confondiamo economia monetaria con capitalismo.
Cos’è allora il capitalismo? Il capitalismo è una particolare forma di orientamento del sistema economico in cui sono date due proprietà aggiuntive rispetto alla comune economia monetaria.
La prima è la centralità del capitale rispetto agli altri fattori produttivi primari (lavoro, terra, imprenditorialità e in genere coordinamento aziendale, ambiente e in genere beni collettivi): il capitale ha il “diritto” di determinare la “governance” delle combinazioni aziendali nelle quali si svolge la produzione, il capitale ha il diritto di trattenere, o comunque di controllare la quota residuale di reddito in sede di sua distribuzione, riservando a fornitori e altri fattori primari solo una remunerazione contrattuale, cioè considerando “reddito” solo la propria remunerazione, e “costi” i redditi degli altri.
La seconda è la tendenza innata all’accumulazione del capitale stesso, e quindi la tendenza alla crescita dell’impresa capitalistica a discapito delle altre imprese, con il progressivo espandersi delle maggiori che inglobano o escludono dal mercato le minori, con il progressivo espandersi del modo di produzione capitalistico a sempre più settori produttivi, con il progressivo espandersi delle produzioni capitalistiche a spese dei settori coperti da autoproduzione familiare o di comunità ovvero dei settori di appannaggio pubblico.
A mio avviso, con tutto il rispetto per l’economia di mercato monetaria, è questa stessa che, naturalmente, quando non ci sono più ostacoli di varia natura come quelli che c’erano nelle società antiche, tradizionali e feudali, tende a trasformarsi in economia capitalistica. È inevitabile che il mercante, quando ne ha la benché minima possibilità, si trasformi in capitalista.
Così la storia dell’ultimo millennio è più o meno la storia delle diverse fasi di espansione e trasformazione del modo di produzione capitalistico, sul quale non posso e non voglio nemmeno soffermarmi più di tanto.
Tutto cominciò con il capitalismo mercantile del Basso Medioevo delle Repubbliche marinare italiane, poi dei Comuni del retroterra dell’Italia centro-settentrionale. Poi questo capitalismo mercantile, sempre più evoluto, si innervò nel retroterra europeo, lungo le rotte dei commerci e delle fiere, per fiorire nelle Fiandre e nel Nord-Europa Hanseatico.
Con la scoperta delle rotte oceaniche il capitalismo mercantile si salda con l’azione imperialista degli stati, e trova le sue centrali nei paesi atlantici. Dapprima in quelli iberici, poi più a Nord, con la Francia e l’Inghilterra che guidano lo sviluppo di un mercantilismo sempre più aggressivo.
Con la rivoluzione industriale il capitalismo mercantile cede il posto a quello industriale, con cui da comprimario diventa protagonista della politica. La sua espansione sembra non conoscere limiti, né di settore, né geografici. Gli ordinamenti tradizionali, uno ad uno sono infiltrati e travolti dall’organizzazione internazionale della borghesia capitalistica, ovvero la Massoneria. Col XX secolo affronta diverse sfide, quella tutto sommato interna dei regimi fascisti, che parzialmente ne ridimensionano la presa a favore di ceti piccolo borghesi e tradizionali, ma soprattutto quella del socialcomunismo, che si fa protagonista della storia.
Il vecchio capitalismo liberale si fa sempre più democratico, inclusivo, keynesiano, socialdemocratico. Ma nel frattempo dall’industria man mano si sposta al commercio, ai servizi, al terziario. Adattandosi ad un contesto non sempre facile, la tendenza alla crescita, sui tempi lunghi, non si arresta, e sempre più ambiti ne sono coinvolti, come in gigantesco blob, in cui sempre più professioni tradizionali tendono ad essere inglobate e proletarizzate.
Nella seconda metà del XX la grande reazione alla crisi bellica e post-bellica, dapprima con la creazione di grandi think-tank mondiali, poi con la svolta neo-liberista, poi con l’assalto al socialismo reale, la sua sconfitta, la diffusione di un regime capitalista globale in uno con una straordinaria nuova rivoluzione tecnologica, la rivoluzione digitale, che apre nuove frontiere e nuove opportunità per i più grandi detentori della ricchezza.
Il capitalismo terziarizzato ormai si è fatto capitalismo finanziario. Dal ciclo Denaro-Merce-Denaro si passa sempre più ad una moltiplicazione speculativa della ricchezza, con un ciclo accorciato Denaro-Denaro, aiutati dalla sempre maggiore concentrazione e privatizzazione della funzione di creazione della moneta, creata dal nulla o fiat, ciò che Marx, nel XIX secolo non poteva distintamente vedere e prevedere.
Dalla caduta del Muro di Berlino il capitalismo ha raggiunto il suo culmine ma le contraddizioni sono arrivate pure al loro culmine.
Non ho intenzione di entrare nei dettagli di questa ultima fase del capitalismo, ma è un fatto che, rispetto alla “storia” cui eravamo abituati, adesso il capitalismo ha completamente cambiato pelle.
La libertà, la proprietà privata, la democrazia rappresentativa, le garanzie costituzionali, ormai sono diventati tutto un fardello inutile per una élite di supermiliardari, che non ha neanche più bisogno dei consumi di massa per esercitare il suo controllo sulla società. Semmai il livello di concentrazione è arrivato al punto che il problema principale è quello di entrare fatalmente in conflitto con tutte le classi sottostanti. E in particolare con i ceti medi, il cui benessere, in un’economia mondiale ormai stagnante, non può più crescere.
Per farla breve, e venire alla risposta, sì, io condanno questo capitalismo, arrivato secondo me alla fase terminale (magari il crollo dura un secolo, ma ormai il sistema è insostenibile).
Questo capitalismo terminale è, fra l’altro, ormai del tutto illiberale, se non nella pura forma e ideologia.
La soluzione, però, non può essere quella di un sistema socialista, nelle sue diverse varianti, più o meno statizzate. L’alternativa al capitalismo Nato non è il comunismo cinese, e nemmeno quello nord-coreano o quello immaginario che non si è mai realizzato.
Purtroppo oggi, da tutte le parti, si assiste ad una compressione dei diritti dell’uomo, e l’umanità, a mio modesto avviso, ha bisogno di una nuova “utopia”, fondata sul rispetto della persona umana.
Questa non può prescindere, dalla presenza di un’economia di mercato, e, entro certi limiti, del ruolo in questo da riconoscere al fattore produttivo capitale, meglio se di dimensioni ridotte, o comunque “nazionale”, ma senza mai poter escludere in linea di principio quello internazionale.
Come uscire allora dalle contraddizioni insite nell’economia di mercato, che si fa fatalmente capitalistica e che da capitalistica arriva alle attuali aberrazioni?
La soluzione, se posso intravederla, si ravvisa forse nella “redistribuzione del reddito”. Il problema principale del capitalismo è la sua innata tendenza alla concentrazione. Ruolo – insostituibile – dello stato è quello di agire in senso esattamente inverso rispetto al mercato. Il mercato concentra la ricchezza, e lo stato la deve redistribuire, e lo deve fare in modo sistematico, ponendo limiti alla concentrazione, favorendo le economie locali, redistribuendo il reddito, sostenendo le classi subalterne o componendone gli interessi con quelli delle classi più forti e con l’interesse pubblico o bene comune.
C’è bisogno prima di pensare e poi di tradurre in prassi un nuovo modello di società; un modello che si opponga alla deriva disumana in atto. Un modello fondato sull’equilibrio tra vari soggetti sociali e tra le varie forme di scambio e di organizzazione del sistema economico, con lo stato, nazionale, a dirigere sovrano le massime scelte di organizzazione della società, ma non a schiacciare l’individuo e la società civile.
E ora vengo alla seconda osservazione del professore: ma io difendo dunque gli evasori?
Ci sono alcuni puntini da mettere sulle i, non pretendo di convincere nessuno. Intanto l’evasione avviene davvero solo in minima parte con il contante. Lo dico ex professo da docente di Ragioneria: è la contabilità lo strumento principale di elusione fiscale. L’evasione della piccola partita IVA? Certo, c’è, ma è una questione di misura. Si può combattere anche con metodi tradizionali, è possibile; è solo debolmente legata al contante, nonostante le leggende metropolitane; non è materiale rispetto alla vera, grande, evasione fiscale. Ma c’è un “di più” che troppo spesso dimentichiamo.
Primo: le “partite IVA” non sono capitalisti, sono semplici lavoratori, autonomi, ma lavoratori. Sono portatori del fattore produttivo lavoro, con qualcosa in più, talvolta, ma anche con tante tutele in meno dei lavoratori dipendenti. Sono vittime anche loro della generalizzata proletarizzazione di tutte le categorie. Non abbiamo mai sentito dire dei dipendenti licenziati e costretti ad aprire la Partita IVA? È l’ultima frontiera del capitalismo in fondo.
Secondo: la digitalizzazione della moneta è opera dello stesso capitalismo, e ne costituisce uno degli strumenti prediletti per aumentare il controllo della società ed azzerare la quota pubblica di moneta ancora in circolazione.
Terzo, e più importante: l’evasione è un male, certo, e, per quanto relativamente trascurabile rispetto alla vera evasione, e per quanto compatibile con strumenti di contrasto tradizionali, talvolta, per quanto possa sembrare paradossale può diventare un male minore.
Infatti, in uno stato sempre più svuotato delle garanzie costituzionali, sempre più piegato agli interessi delle oligarchie finanziarie onnipotenti, la moneta elettronica può diventare lo strumento sia del controllo totale della cittadinanza, sia, e soprattutto, strumento di oppressione e di eliminazione quasi fisica dei dissidenti.
Abbiamo assistito a questa tecnica tanto nell’Iran degli Ayatollah, esterno al capitalismo occidentale, e soggetto ad altra forma di totalitarismo, quanto nel “civilissimo” Canada, dove ai dissidenti è stato bloccato il c/c.
Non è qui la questione se fosse giusto o sbagliato, perché così divaghiamo a parlare di vaccino invece di parlare di una struttura di potere nuova, e pericolosissima. Anche se il “blocco” fosse stato fatto per il più nobile dei motivi, abbiamo dato al potere uno strumento con cui condannare a morte ogni dissidente.
E questo dissidente potrebbe essere proprio chi cerca di contrastare il potere del capitalismo globale, apparentemente potentissimo, ma altrettanto fragile.
Penso possa bastare per correre il rischio che qualche barista o idraulico occulti un po’ di reddito all’IRPEF e riesca a farcela negli occhi.
Si tratta di evitare il male maggiore.
Il mondo, oggi, ha bisogno di anonimato e libertà, non di controllo.
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