Da Garibaldi a Finocchiaro Aprile: Storia della Sicilia nel Regno d’Italia
Andiamo indietro con la seconda edizione della Storia istituzionale e politica della Sicilia.
La volta scorsa la storia dell’autonomia. Ora, più indietro, dall’Unità d’Italia alla conquista dell’Autonomia.
Capitolo 2: La Sicilia nel Regno d’Italia
- 1 – L’invasione garibaldina e l’annessione all’Italia
I tempi per un’annessione della Sicilia all’Italia settentrionale erano maturi sul piano internazionale. Il Piemonte trattava con la Francia la formazione di un Regno del Nord (dando Nizza e Savoia in cambio dell’annessione di Emilia-Romagna e Toscana). Per il Centro sembrava insormontabile la difesa dello Stato della Chiesa da parte della Francia di Napoleone III. Per il Sud si pensava di rimettere un napoleonide a Napoli, lasciando magari la Sicilia nella zona d’influenza inglese. Dai carteggi privati del Cavour si apprende che stava negoziando proprio con la Francia e in alternativa, la possibilità di annettere il Napoletano (e Umbria-Marche come “raccordo” territoriale), lasciando il solo Lazio al papa, dando in compenso a Napoleone l’Elba e la stessa Sardegna, che sarebbero state sacrificate esattamente come si era fatto con Nizza e Savoia. Da questo carteggio emerge che di togliere la Sicilia dall’influenza britannica non se ne parlava nemmeno, pensando di mettere sul suo trono proprio quel Leopoldo di Borbone (che però non aveva eredi) che tante speranze in Sicilia aveva suscitato negli anni ’30. Questo fa comprendere bene che la politica del Cavour fosse ancora quella dinastica del “carciofo”, indifferente alla “Questione italiana”, vista come mezzo e non come fine dell’espansione territoriale dello stato sabaudo.
Ma questi disegni avrebbero creato comunque un’Italia sotto egemonia francese, e confinato l’influenza della maggiore potenza, l’Inghilterra, alla piccola Sicilia, peraltro con un regno al momento senza re, per l’impossibilità di riproporre gli odiati borboni alla Sicilia. L’Inghilterra decise che, una volta usciti di scena gli Austriaci, che si accontentavano di mantenere il Triveneto, era il momento di creare un unico stato italiano, molto più sensibile alla propria influenza che a quella francese. E pertanto abbandonarono definitivamente la causa siciliana. Gli stessi nazionalisti siciliani erano scoraggiati dopo tanti insuccessi. La propaganda nordista, mazziniana o moderata, spingeva verso una soluzione unitaria. La maggior parte, tuttavia, propendeva per una qualche forma di autonomismo, che avrebbe salvato almeno qualcosa del vecchio Regno di Sicilia.
Nell’aprile del 1860 a Palermo scoppia l’ennesima rivolta antiborbonica. Difficile dire se fosse “unitaria”, come più tardi si sarebbe scritto, o più semplicemente l’ennesimo tentativo dei Siciliani di scrollare il dominio dei Napoletani. Soffocata a Palermo, la rivolta dilaga endemica nel resto dell’Isola.
In questo contesto caotico si inserisce la “Spedizione dei Mille” guidata dalla milizia di Giuseppe Garibaldi, un comandante di volontari della sinistra liberale che si era distinto in varie operazioni, soprattutto nella I Guerra d’Indipendenza e nella difesa della Repubblica Romana del 1848. In teoria i miliziani di Garibaldi (un migliaio circa di giovani del Nord e pochissimi siciliani) stavano compiendo un colpo di mano fuori dalla legalità, impadronendosi di due vapori a Quarto (in Liguria), assaltando una fortezza sabauda a Orbetello, per far rifornimento di armi e munizioni, sbarcando infine a Marsala. Nella realtà l’operazione era interamente coperta dal governo piemontese e soprattutto da quello inglese, che protesse lo sbarco dei Mille a Marsala, l’11 maggio 1860. Il resto lo fecero la corruzione di funzionari e militari del Regno delle Due Sicilie, pagati per fare una resistenza puramente simbolica di fronte al “liberatore”. In questa operazione ebbe un ruolo determinante la massoneria, che anch’essa spingeva per creare il nuovo stato unitario italiano. Solo questa ampia rete di protezione internazionale consentì che una banda di pochi uomini potesse fare crollare uno stato sovrano con poco più che una passeggiata simbolica.
Garibaldi, a Salemi, si proclama “Dittatore della Sicilia” in nome di “Vittorio Emanuele II”. Stranissimo titolo, questo. In teoria proclamava usurpatori i Borboni, e per farlo si riallacciava all’unica legalità possibile in Sicilia, quella dello Stato di Sicilia (indipendente) che formalmente si riportava in vita in modo transitorio, con l’unico scopo però di favorire l’annessione al Piemonte. Dall’altro si presentava a nome di quello che a tutti gli effetti ancora era un re straniero. Nulla disse, né poteva dire, l’unico rappresentante in quel momento della legalità costituzionale siciliana, il vecchio e malandato Ruggiero Settimo, “ospite” a Malta degli stessi Inglesi che stavano organizzando la spedizione. Per coprire questo strappo evidente, proprio a Ruggiero Settimo sarebbe stata offerta la Presidenza del primo Senato del Regno. Egli non abbandonò però il suo esilio, e poco dopo vi morì, non si sa se di vecchiaia o di crepacuore, per essere poi traslato a San Domenico, a Palermo, nel Pantheon dei Siciliani illustri. Con lui fisicamente sembrava morire lo stesso concetto di Regno di Sicilia.
In verità sulle prime non si sapeva bene come sarebbero andate a finire le cose. Bisognava vincere più che altro le resistenze francesi, vista l’assoluta inconsistenza dello Stato borbonico, privo ormai del supporto austriaco. Sarebbe potuta anche andare che la Sicilia restava un Regno confederato all’Italia centro-settentrionale (allora ancora amorfa somma del Regno di Sardegna e della carica di “re eletto” nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale) o una regione autonoma con proprio parlamento, come aveva promesso Vittorio Emanuele all’esule D’Ondes Reggio poco tempo prima. Non si comprendeva la sorte del Regno di Napoli propriamente detto, che cercava affannosamente di salvarsi sul piano della diplomazia internazionale, ma ormai in condizioni di pieno isolamento.
Per irrobustire la propria armata Garibaldi aveva ricevuto l’aiuto di bande, tra cui certamente molti criminali, a lui presentate dal La Masa già il giorno dopo lo sbarco: i famigerati “Picciotti Garibaldini”, dalle cui fila poi sarebbero in gran parte nate le cosche mafiose propriamente dette, la prima delle piaghe postunitarie della Sicilia. Con l’aiuto di queste, in una battaglia-farsa, a Calatafimi, l’esercito borbonico è messo in fuga. Inutile sarebbe stato poi il tentativo della Dittatura di disfarsi di queste squadre improvvisate, e di sostituirle con un esercito di leva, da sempre avversato dai Siciliani.
Ad Alcamo si tenta di dare un barlume di legalità al nuovo governo: Francesco Crispi è nominato “Segretario di Stato” (di quale Stato? Della Sicilia naturalmente, ancora per una volta riconosciuta, ora anche internazionalmente, come stato sovrano) e sono richiamati in vigore le leggi e i provvedimenti del Governo Rivoluzionario del 1848/49 (“rivoluzionario” in senso molto relativo, essendo in fondo l’unico governo legittimo), dichiarando la decadenza di tutto ciò che dopo era stato deliberato dall’“usurpatore borbonico”. In questo modo Garibaldi si riallacciava esplicitamente alla legalità anteriore al 1816, l’unica possibile, per fare accettare il proprio governo ai Siciliani. Seguono provvedimenti conseguenti. Le 7 intendenze borboniche sono sciolte, sostituite nuovamente dai 24 distretti del Regno di Sicilia, nei quali nomina un Governatore. C’è chi crede che sia tornato il ’48, ma gli atti pubblici già sono intestati a “Vittorio Emanuele Re d’Italia”, quando l’Italia in quel momento ancora non esisteva. Tornano le libertà civiche e la libertà di stampa. Si formano i partiti. Sono rimessi al loro posto i funzionari deposti nel 1849 e ricostituiti i consigli civici con le stesse persone di allora, integrati da componenti popolari per cooptazione quando necessario. Così, anche per guadagnare popolarità, furono abolite tutte le imposte decretate dopo il 15 maggio del 1849, tra cui quella più odiata, sul macinato.
Più difficile fu la conquista di Palermo, che costa tre giorni di barricate, con l’apporto decisivo dei Palermitani che, in quelle barricate, pensavano soprattutto di liberarsi finalmente dalla birraglia borbonica e dai suoi soprusi. Molti Siciliani, tra il popolo minuto, non comprendevano neanche bene cosa fosse questa Italia, di cui si andava parlando. Non ne conoscevano proprio il concetto, ignoravano di poter essere altro che “Siciliani”; per molti addirittura “Italia” era il nome della regina, la presunta moglie di questo Vittorio Emanuele II nel cui nome veniva Garibaldi. Per che cosa stavano realmente lottando lo avrebbero scoperto “a poco a poco”, negli anni seguenti, quando la Sicilia sarebbe diventata a tutti gli effetti una provincia italiana.
Dopo la conquista di Palermo l’amministrazione borbonica in Sicilia collassa dappertutto definitivamente. I contadini, vedendo in Garibaldi un democratico, pensano sia giunta l’ora della distribuzione delle terre.
Tra i vari partiti che si formano prevalgono, a destra, come a sinistra, i “regionisti”, popolari tanto tra i moderati che avevano fatto la rivoluzione del ’48, quanto tra la destra clericale, quanto tra i repubblicani e radicali. Cavour manda subito agenti per infiltrare il nuovo effimero Stato e fomentare il partito “fusionista”, che invece era per un’annessione pura e semplice al Piemonte (tra questi il La Farina). Ma questo partito resta assai minoritario. Le proteste dell’economista Francesco Ferrara, ricevono una risposta sdegnosa e indiretta di Cavour, che considera i Siciliani quasi dei “traditori”, che invece di essere fieri di unirsi alla grande famiglia italiana (della quale in verità non avevano mai fatto parte), parlavano di parlamenti separati, mettevano paletti, accampavano antichi diritti. Gli Italiani non potevano capire secoli di cultura politica propria dei Siciliani. Stava per nascere subito un terribile malinteso tra Sicilia e Italia.
Garibaldi aveva sin allora fatto un po’ il Capo di Stato in Sicilia, e dopo la presa di Palermo costituisce un vero Ministero, con otto dicasteri (Guerra e Marina, Interno, Lavori pubblici, Finanze, Giustizia, Istruzione pubblica e culto, Affari esteri e commercio, Sicurezza pubblica) e pretendendo anche di presiedere ai festeggiamenti di S. Rosalia, nella qualità di Legato Apostolico.
Sotto l’influsso del messinese La Farina, inviato da Cavour, abbatte rapidamente tutte le istituzioni siciliane appena ricostituite per omologarle a quelle piemontesi. Viene introdotto lo stemma sabaudo quale emblema dello Stato di Sicilia, pur essendo questo del tutto estraneo alla sua tradizione storica. La “piemontesizzazione” è così rapida che i Siciliani protestano. Garibaldi è costretto ad espellere La Farina dalla Sicilia, per il momento perplesso anche lui sull’annessione immediata al Piemonte, ma per ragioni diverse da quelle degli autonomisti. C’era infatti una sorta di convergenza dei garibaldini e degli autonomisti contro la “fusione immediata” che voleva il Cavour. Garibaldi non si era ancora deciso a consegnare tutto a Vittorio Emanuele, non prima almeno di essere giunto a Roma, ed aver completato così l’unità d’Italia. La tradizione indipendentista, già moderata nel confederalismo del 1848, covava ancora generalizzata nel 1860, ora sotto le vesti di uno spinto autonomismo. L’annessione pura e semplice al Piemonte sembrava invece un salto nel vuoto, di cui giustamente quasi tutti coloro che intendevano di politica diffidavano.
Nel frattempo la battaglia definitiva in cui i residui dell’esercito borbonico furono sconfitti si ebbe nel mese di luglio a Milazzo. Dopo, questo si rinserrò dentro l’imprendibile cittadella messinese. Nel frattempo, cambiato il contesto internazionale, dopo qualche esitazione, si optò per la spallata finale al regime borbonico, con la piena collaborazione del Ministro dell’Interno napoletano Liborio Romano, in combutta anche lì con camorra e massoneria. I tentativi di Francesco II di concedere la Costituzione, di adottare il Tricolore, di dare l’Autonomia ai Siciliani, si rivelarono patetici e fuori tempo massimo; la dinastia spergiura era ormai condannata dalla storia e non era più credibile. Aveva tradito la Sicilia con l’abolizione della Costituzione del 1812, ma aveva anche tradito le costituzioni concesse nel 1820 e nel 1848. E peraltro era ormai del tutto isolata anche a livello internazionale. Garibaldi risale trionfalmente la Calabria e arriva a Napoli comodamente in treno, mentre il Regno va letteralmente in frantumi. Il Piemonte, per saldare anche fisicamente l’Italia, attacca a questo punto lo Stato pontificio, strappando le Marche e l’Umbria, garantendo alla Francia che il “Patrimonio di S.Pietro” (il solo Lazio) non sarebbe stato tolto al papa, e invade il Regno delle Due Sicilie da nord, occupando l’Abruzzo. Di lì a poco i Borboni in ritirata sarebbero stati annientati al Volturno. Resistettero un po’ soltanto le fortezze di Gaeta e della cittadella di Messina (quest’ultima fino al 1861).
La vittoria di Milazzo e la prospettiva di risalire le Province Napoletane costringono Garibaldi a delegare i poteri di Capo di Stato in Sicilia: nomina così Agostino Depretis “Pro-dittatore”, sorta di viceré repubblicano, in piena continuità con la medesima tradizione che durava dai primi del 1400, mostrando che l’indipendenza formale del Governo della Dittatura e le “forme esteriori” di Governo sovrano di cui la Sicilia era stata dotata erano puramente apparenti ed esclusivamente funzionali alla successiva annessione.
Curioso notare che il Depretis formalmente riapre la zecca di Palermo, ma questa di fatto, pur essendo riconosciuta da successiva legge del Regno d’Italia, non avrebbe mai più ripreso effettivamente a funzionare. Come nel 1820 e nel 1848 valuta nominale del rinato (anche se fantoccio) Stato di Sicilia è l’onza siciliana, al posto del ducato duosiciliano.
Anche le rivendicazioni contadine sono soffocate. Per proteggere la “Ducea di Nelson”, in mano a proprietari inglesi, Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, manda l’esercito a reprimere la popolazione, fucilando capi e gregari della protesta contadina. Bixio, oltre a macchiarsi nell’occasione di veri crimini di guerra, avrebbe avuto parole sprezzanti per i Siciliani, definito popolo incivile da deportare in qualche isola africana, dimostrando in tal modo i reali termini della conquista piemontese della Sicilia. Il processo di omologazione con gli stati sardi non si arresta. Depretis “recepisce in Sicilia” lo Statuto albertino il 3 agosto 1860, abrogando così implicitamente lo Statuto del 1848, assai più democratico e carico di significati storici per la Sicilia. Poco dopo adotta la legge comunale e provinciale del Regno di Sardegna, demolendo le autonomie e le disposizioni del 1848 appena richiamate in vigore. Impone a funzionari pubblici ed impiegati civili il giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele II, ancora re di uno stato straniero.
Riprendono così le proteste dei Siciliani, ancor più vigorose di quelle che avevano investito il La Farina.
Garibaldi è costretto a sostituire il Depretis con Antonio Mordini, più sensibile verso gli autonomisti, il quale convoca per il successivo 21 ottobre un’Assemblea (di fatto è la riapertura del Parlamento) affinché questa decidesse tempi e modi dell’annessione della Sicilia all’Italia. Mordini si rivela buon amministratore, e complessivamente amico della causa siciliana. Nel frattempo anche Filippo Cordova, approdato come il La Farina al “fusionismo” puro e semplice, è costretto a lasciare la Sicilia. Queste espulsioni dei fusionisti, avallate da Garibaldi, testimoniano della forza sul territorio del partito “autonomista”. L’iniziativa delle elezioni siciliane, però, è valutata con estrema preoccupazione a Torino. Una fusione “federale” avrebbe avuto il significato di una fusione tra pari. E invece doveva essere solo conquista. A Palermo, per finanziare la spedizione, Garibaldi aveva confiscato, proprio come si fa con un paese sconfitto ed occupato, un terzo delle riserve auree del Banco, ribattezzato di “Sicilia” per l’occasione. Il tentativo di Vincenzo Florio di dar vita ad un istituto di emissione “privato”, sul modello dalla Banca Nazionale degli Stati Sardi di Torino, fu bloccato. La conquista doveva procedere spietata. Per smontare l’iniziativa assembleare siciliana, il Pallavicini, pro-dittatore a Napoli, proclama, per lo stesso giorno dei Siciliani, un plebiscito-farsa per l’annessione incondizionata al Piemonte delle “Province Napoletane”, mettendo in luce così lo scarso patriottismo dei Siciliani, che invece volevano convocare un parlamento. A Napoli, sia pure sotto molte titubanze, l’esempio dei Siciliani era piaciuto e avrebbero voluto convocare un’assemblea pure loro, ma sia Garibaldi sia Cavour temevano in maniera fondata che un’assemblea del Sud Italia avrebbe espresso quanto meno una fortissima minoranza filoborbonica, e questo, sul piano dell’immagine internazionale, era inaccettabile. Da qui l’ordine di Garibaldi al Pallavicini di procedere senza indugio al Plebiscito “per le Provincie Continentali”.
La Sicilia rimase così isolata e fu costretta, da quello che formalmente era ancora uno stato straniero, ad adeguarsi e a celebrare essa stessa un plebiscito-farsa, al posto dell’elezione dell’Assemblea. Le pressioni da Torino, e forse la corruzione, sotto promessa di ruoli di prestigio nel nuovo Stato, erano di giorno in giorno crescenti. Va detto – in tutta onestà – che la scelta ultima non fu presa da Garibaldi, il quale, consultato dal Mordini sul da farsi, rispose pilatescamente: “Fate come volete”. L’iniziativa era ormai nelle mani del Governo piemontese, e la Sicilia non aveva in quel momento alcuna forza da opporre seriamente all’annessione. Per non darla del tutto vinta ai Piemontesi, il pro-dittatore nominò, quale ultimo atto politico di questo effimero Stato di Sicilia, un “Consiglio Straordinario di Stato”, presieduto da Gregorio Ugdulena e composto da 36 membri, con le stesse funzioni dell’Assemblea che era stata inibita, ma certamente dotato di minore legittimazione democratica: “incaricato di studiare ed esporre al Governo quali sarebbero nella costituzione della gran famiglia italiana gli ordini e le istituzioni a cui convenga portare l’attenzione, perché rimangano conciliati i bisogni peculiari della Sicilia con quelli generali dell’unità e prosperità della Nazione Italiana”. Mordini, che pure siciliano non era, difese fino all’ultimo gli interessi della Sicilia. Lo fece solo per contrastare il Cavour? Certo è che lo fece con estrema sincerità: in una corrispondenza con Garibaldi, finché possibile caldeggiava la convocazione dell’Assemblea, assicurando che in tal modo ci si sarebbe assicurato che “i separatisti non facciano paura”, rivelando così quali erano i reali timori che i politici italiani, tutti, avevano nei confronti della sorte politica della Sicilia.
Il Plebiscito, celebrato il 21 ottobre 1860, fu un atto giuridicamente nullo. Sotto la minaccia delle baionette, tutti i cittadini maschi (ma anche soldati piemontesi affluiti nel frattempo) erano chiamati a scegliere tra due schede prestampate, una colorata con il SI, l’altra bianca con il NO, da depositare in due urne diverse, quindi senza alcun voto segreto. Il quesito poi chiedeva un’adesione incondizionata a un’Italia che ancora non esisteva, e non indicava alcuna alternativa, o l’annessione al Piemonte per fare l’Italia con Vittorio Emanuele e i suoi successori, o il caos: «Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti».
In queste condizioni il risultato, sin troppo scontato, fu quello di una valanga di SI (432.053), ciò che avrebbe giustificato i seguenti atti giuridici di annessione, e solo 667 NO, di coloro che coraggiosamente intesero sfidare la violenza politica in atto. Il Consiglio di Stato consegnò a novembre, quando ormai il governo della Dittatura stava per trasmettere al Piemonte i poteri, una relazione (elaborata da Michele Amari e Stanislao Cannizzaro) che, se accolta, avrebbe consentito alla Sicilia di mantenere una significativa autonomia: Consiglio legislativo proprio (piccolo parlamento regionale), Esclusiva sul regime tributario, Luogotenenza separata per l’esecutivo, sottoposta a fiducia da parte del Consiglio elettivo, Magistratura indipendente. Soprattutto l’idea di un piccolo parlamento regionale destò grande scandalo in Italia, dove vedevano l’autonomia come un vero attentato all’unità del paese (l’autonomia di un Paese – va detto – che non era sino ad allora mai stato parte dell’Italia e che aveva secoli di tradizioni parlamentari proprie).
Il Re Vittorio Emanuele II ignorò questa richiesta, limitandosi ad ammettere un piccolo decentramento amministrativo, con un governo della Luogotenenza, come sotto i Borbone. Al passaggio di consegne dalla Dittatura all’Italia, il 3 dicembre 1860, lo “Stato di Sicilia” è definitivamente estinto, dopo circa 730 anni dalla sua rinascita. E, proprio come sotto i Borbone, furono ricostituite le odiate “intendenze”, ora sotto il nuovo nome di “provincie”, mentre i distretti del Regno di Sicilia furono degradati a circondari. L’amministrazione provinciale fu affidata a Prefetti che si comportavano come governatori coloniali inviati in una terra lontana ed ostile. I passaggi formali successivi, di annessione delle “Provincie Siciliane”, già consegnate a Vittorio Emanuele, all’interno del Regno di Sardegna (dicembre 1860), e l’anno dopo la trasformazione di questo in “Regno d’Italia” (febbraio 1861) sono semplicemente atti dovuti.
Il Luogotenente era un po’ rappresentante del Re in Sicilia, un po’ Capo autonomo dell’Esecutivo. Sarebbe dovuto essere un po’ come gli antichi viceré; in realtà si alternarono soltanto tre generali piemontesi (Montezemolo, Della Rovere e Pettinengo) che intesero la loro funzione come una occupazione militare pura e semplice che fece rimpiangere persino il caos dell’amministrazione dittatoriale garibaldina.
La Sicilia politica era conquistata, anzi annientata. Tra i pochi vantaggi dell’annessione un moderatissimo ordinamento liberale (votava per i consigli comunali e per le politiche meno del 2% della popolazione), una moderata libertà di stampa, l’introduzione della libertà di culto, con la quale i Siciliani, abituati da secoli solo alla religione cattolica, videro con un certo disappunto lo stabilimento di piccole comunità valdesi venute dal nord. Nel complesso, tuttavia, il protestantesimo non avrebbe mai attecchito in Sicilia se non in piccole comunità, così come altre religioni, e ciò sino ai giorni nostri.
Le prime elezioni (1861), pilotate dai prefetti, a suffragio ristrettissimo, videro vincere di misura la Destra storica al Governo con una forte opposizione di azionisti, autonomisti e clericali. Sarebbe stata l’unica volta in cui i “moderati” filo-piemontesi avrebbero vinto in Sicilia. Come curiosità linguistica piace ricordare che nelle primissime legislature i deputati siciliani, di maggioranza e di opposizione, solevano spesso riunirsi tra loro prima delle sedute ufficiali per parlare “più liberamente”, praticamente in Siciliano. L’Italia unita, infatti, creando una comunità politica e un servizio militare obbligatorio, costringeva per la prima volta nella storia i Siciliani ad un uso della lingua italiana “vivo” che in passato, anche sotto le “Due Sicilie” raramente era servito all’infuori della lingua scritta o di qualche occasione particolarmente formale.
L’odio crescente verso il nuovo governo non avrebbe consentito di replicare mai più questo effimero successo, persino nel regime di suffragio ristrettissimo. I Governi della Destra governavano la Sicilia, infatti, con uno stile poliziesco tale da far rimpiangere a qualcuno persino il cessato governo borbonico (il che non a caso determinò la nascita, per la prima volta nella recente storia, di un piccolo partito “legittimista”), non disdegnando tuttavia di appoggiarsi ai servizi della neonata mafia, se necessario, come quasi certamente nella “Congiura dei Pugnalatori” (1862) o nell’eliminazione di qualche garibaldino troppo scomodo (Corrao, nel 1863), anche per favorire un clima di terrore che giustificasse poi provvedimenti eccezionali.
Parte dell’opposizione siciliana al nuovo governo è di matrice garibaldina, come testimoniato dal successo nel reclutamento di Garibaldi nella “marcia su Roma” del 1862, finita poi sfortunatamente per lui sull’Aspromonte. I Siciliani postunitari quindi attribuivano le loro sventure al governo moderato e alla ferocia dei Piemontesi, e non al processo unitario in quanto tale, laddove il mito garibaldino sarebbe restato per più di un secolo circondato quasi da un’aura di sacralità, a posteriori certamente non troppo meritata. Garibaldi raccolse forze quindi già disamorate nei confronti del nuovo governo, ma ancora genuinamente legate al mito che questi aveva creato. Il Governo italiano del Rattazzi ambiguamente lasciava fare, mentre lui passava da Palermo a Catania e poi si imbarcava per la Calabria, dove – comprendendo lo Stato che non si poteva sfidare la Francia – fu brutalmente fermato, ferito e imprigionato. Si vuole ricordare anche il sacrificio dei garibaldini rimasti al di qua dello Stretto, braccati dall’esercito regolare e infine fermati a Fantina, dove furono tutti imprigionati e i disertori dell’esercito regolare (ma anche alcuni innocenti) fucilati senza processo. In realtà dietro quel grido “O Roma o Morte!” si nascondeva un antico malessere delle plebi siciliane, sempre represso, e certamente mal indirizzato verso un obiettivo che poco aveva a che vedere con la Sicilia.
La Sicilia non conobbe invece la Guerra del Brigantaggio del Sud Italia; troppo filoborbonica per un Popolo che con i Borbone aveva ancora un conto aperto. Ma non per questo mancarono altri disordini. Una rivolta a Castellammare nel 1862 fu l’occasione per proclamare il primo stato d’assedio (ne sarebbero stati proclamati ben tre nel XIX secolo) e sospendere le garanzie costituzionali. Con l’occasione fu revocato il Governo della Luogotenenza, ultima larva di decentramento amministrativo, e tutta l’amministrazione affidata ai prefetti, oltre che di fatto alle forze armate occupanti, guidate ora dal generale Govone. Nel 1863 è estesa alla Sicilia la terribile “Legge Pica” che sostanzialmente sospendeva lo stato di diritto e consentiva all’esercito italiano esecuzioni sommarie. Le proteste a Torino dei deputati “regionisti” sono schiacciate da un Parlamento italiano che dà piena copertura politica ad ogni repressione.
Dal 1861 al 1865 tutte le legislazioni preunitarie sono soppresse, e la legge e le dogane piemontesi estese a tutto il Regno. Le istituzioni siciliane, le poche sopravvissute all’accentramento borbonico, sono progressivamente dissolte, con la sola eccezione della Corte di Cassazione e dell’Istituto di emissione, che sarebbero giunte sino ad epoca fascista. L’onza siciliana, la moneta che aveva accompagnato la Sicilia praticamente da sempre, è abbandonata e convertita con il rapporto di 12,75 lire italiane per un’onza siciliana (e quindi 4,25 lire per ogni ducato napoletano).
La moneta emessa dal Banco di Sicilia, in parità 1 a 1 con le proprie riserve auree, e quella emessa dal Banco di Napoli, in parità 1 a 2, è scambiata alla pari con quella emessa dalla Banca Nazionale di Torino, in parità soltanto 1 a 3, con il risultato che i metalli pregiati spariscono rapidamente dal Mezzogiorno per affluire al Nord a favorire il decollo di quella parte del Paese. Le tasse, rispetto al passato regime, sono di colpo moltiplicate. Praticamente dal nulla compare una “Questione Meridionale” e così pure la “Mafia”, laddove questi fenomeni non erano mai esistiti né conosciuti prima. Particolarmente odiata, e dannosa da un punto di vista economico, l’introduzione della leva obbligatoria, mai riuscita in Sicilia ai Borboni, che si erano limitati a tenerla nel Napoletano (forse anche per mancanza di fiducia nei Siciliani); leva che teneva i giovani nel fiore degli anni lontani per 5 o 6 anni sottraendoli al loro lavoro, alla loro famiglia, per andare a servire un Paese percepito come alieno e lontano, dove si parlava una lingua sconosciuta ai più, spesso andando a morire per guerre di cui si ignorava la ragione. Fino alla fine del XIX secolo si hanno testimonianze di fiera resistenza, anzi di vera e propria renitenza alla leva, finché anche questo carattere atavico di libertà dei Siciliani non fu estirpato e la leva non entrò nella cultura locale come un fatto normale.
Unico corpo tipicamente siciliano che sopravvive, specifica polizia rurale siciliana, è il “Corpo dei Militi a Cavallo”, un’istituzione che, attraverso vari cambi di nome (dapprima “Compagnie d’Armi”, poi “Gendarmeria reale” sotto i Borboni), risaliva addirittura al Regno di Carlo I (V S.R.I.) e che aveva in gran parte il compito di tenere l’ordine pubblico nelle campagne, in modo parallelo alle “guardie campestri” baronali, invece sostanzialmente private.
Accusato il corpo di collusione con il malaffare, in gran parte ingiustamente, dalle inchieste di Franchetti e Sonnino, i suoi militi sono licenziati quasi tutti in tronco nel 1877, e i superstiti decimati trasformati in un corpo accasermato di “Guardie di pubblica sicurezza a cavallo”, che sarà definitivamente sciolto nel 1892. I “militi a cavallo”, non accasermati, a differenza dei carabinieri, visti come occupanti stranieri, garantirono il difficile passaggio nei primi anni dell’Unità d’Italia e furono protagonisti di azioni a dir poco eroiche in una Sicilia in cui lo Stato italiano era del tutto incapace di mantenere l’ordine pubblico, forse proprio perché più vicini alla cultura e mentalità delle persone su cui dovevano vigilare. La loro dispersione e soppressione fu uno dei tanti atti di razzismo interno del nuovo Stato italiano. In qualche modo essi sarebbero “risorti” nell’attuale Corpo Forestale della Regione, l’unico corpo di polizia che l’Italia avrebbe devoluto alla Regione Siciliana dopo la sua istituzione (1946).
- 2 – Dalla repressione della Destra alla connivenza con la mafia della Sinistra
La Sicilia, dalle elezioni politiche del 1865 a quelle del 1876, dà la maggioranza dei seggi all’opposizione e sempre più con il passare degli anni.
Il 1865 vede la spoliazione del colossale patrimonio, accumulato nei secoli dagli enti ecclesiastici, i quali avevano sino ad allora svolto funzioni di previdenza e assistenza sociale, soprattutto per i ceti artigiani urbani. Questo patrimonio verrà reinvestito solo in minima parte in Sicilia. Si trattò di una vera e propria rapina, che tra l’altro lasciò nella disperazione migliaia di famiglie isolane.
In pochi anni il governo “moderato” era riuscito a mettere tutti d’accordo: repubblicani, sinistra moderata, indipendentisti o autonomisti, clericali, borbonici. D’accordo sul fatto che “si stava meglio quando si stava peggio”.
Il 1866, proprio durante la III guerra d’Indipendenza italiana, a Palermo scoppia una rivolta separatista, che presto dilaga in altri centri dell’Isola. Fu chiamata “del Sette e mezzo” per la sua durata. Protagonisti delle barricate sono in gran parte le stesse persone che sei anni prima avevano fatto le barricate per Garibaldi. Si costituisce un Governo provvisorio guidato dal Principe di Linguaglossa. La repressione italiana, guidata dal generale Raffaele Cadorna, è spietata, a capo di un corpo di spedizione di ben 30.000 uomini. Palermo è cannoneggiata dal mare. I morti si contano innumerevoli e sono poi registrati come “morti per colera”. Solo il sindaco di Palermo, il Marchese Di Rudinì, resta fedele allo Stato italiano, asserragliato nel Palazzo di Città. Alcuni storici sospettano che tanta capacità di resistenza sia stata favorita da interferenze straniere, ma a noi non pare un’interpretazione credibile. Il “Sette e mezzo” fu soltanto una risposta disperata, spontanea e acefala della Sicilia alla barbara invasione, a una delle più dure dominazioni mai subite durante la propria lunga storia.
La Sicilia è nuovamente sotto stato d’assedio. Segue una nuova amministrazione militare dell’Isola, affidata ora al generale Medici. Per placare l’opinione pubblica internazionale, si dispone una commissione d’inchiesta parlamentare. Ma questa arriva a conclusioni che la storiografia considera come minimizzanti rispetto ai veri drammi dell’Isola, giacché lo Stato italiano non avrebbe potuto mai mettere sé stesso sul banco degli imputati.
Va dato tuttavia al Medici il merito di avere iniziato a migliorare la viabilità dell’Isola, attraverso un programma di costruzioni di strade e ferrovie. Probabilmente le comunicazioni erano allora viste come funzionali agli spostamenti delle truppe italiane d’occupazione, ma indirettamente favorivano la modernizzazione della Sicilia. Passato il primo trauma, del resto, sia pure faticosamente e piegato dal colonialismo interno, il Paese riprendeva un proprio cammino verso la modernizzazione e lo sviluppo economico, inarrestabile ovunque nell’Europa del secondo XIX secolo.
Dopo la presa di Roma, nel 1870, il piccolo partito borbonico svanisce del tutto, confluendo parte nel regionismo siciliano, parte nel clericalismo. Lo Stato italiano, nella successiva “Legge delle Guarentigie” fatta per tentare di non esasperare i rapporti con il Papato, rinuncia (1871) all’antichissima Apostolica Legazìa sulla Sicilia, alla quale neanche l’Italia unita aveva sino ad allora rinunciato. Già il papa nel 1864 con un suo “Breve”, non ancora riconosciuto dall’Italia, l’aveva ritirata cogliendo l’occasione della ormai definitiva scomparsa del Regno delle Due Sicilie; così la Chiesa romana, pur non riconoscendo la Legge delle Guarentigie, tornava in possesso del controllo sulla Chiesa siciliana dopo più di mille anni (da quando, nel 733, Leone III Isaurico, l’aveva tolta alla giurisdizione papale, poi restando autocefala anche nel periodo di dominazione musulmana, e sotto l’autorità del Gran Conte Ruggero alla “riconquista”, fino a quando, nel 1098, Urbano II, appunto con l’Apostolica Legazìa, si limitò a riconoscere la condizione di fatto per cui la Chiesa Siciliana era dipendente dal Re, in quanto Legato apostolico “nato”).
Negli anni ’70 non finiscono i provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza, militari e di polizia, contro la Sicilia, trattata ancora come un paese straniero occupato. Nel 1876, infine, la Destra storica è rovesciata alle elezioni. Ma la Sicilia che ora va al potere con la Sinistra è ormai una Sicilia “malata”: una classe dirigente più o meno apertamente mafiosa, in piena collaborazione con lo Stato. Le successive elezioni confermano questa maggioranza, già “azionista” e crispina, e ora trasformista. L’opposizione invece è ora rappresentata dalla destra dei moderati del Di Rudinì, e dalla sinistra estrema dei radicali.
Vi è però anche da dire che con la Sinistra viene resa obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare; l’antico progetto della Costituzione siciliana del 1812 diventa realtà solo 70 anni dopo circa, dopo un indubbio, seppur lento, miglioramento generale della pubblica istruzione che data dall’Unità, quando venne estesa alla Sicilia la Legge Casati del 1859 che regolava la pubblica istruzione nel Regno di Sardegna. Tale obbligo resta però in gran parte teorico, giacché è affidato alle esangui casse comunali, e la scolarizzazione, come la penetrazione della lingua italiana parlata, fa solo lentissimi progressi durante tutta l’epoca monarchica, essenzialmente grazie al servizio militare obbligatorio, alla scuola, alla I Guerra mondiale, con la sua leva di massa, e infine, sul finire di quest’epoca, durante il Fascismo, alla diffusione della radio. Man mano che l’italiano lentamente avanza, il siciliano arretra, soprattutto nella considerazione sociale, restando comunque il principale strumento di comunicazione tra siciliani nella vita di tutti i giorni. Dopo l’Unità d’Italia, esso viene politicamente e ideologicamente relegato a dialetto, e in quanto tale combattuto, o al più tollerato, ma evidenziandone le differenze di pronuncia e di grafia da distretto a distretto, tentando di far perdere quella tradizione letteraria unitaria che, nonostante il declassamento già subito in era borbonica, non si era fin lì perduta.
Fece scalpore in quegli anni l’inchiesta indipendente di Franchetti e Sonnino, molto meno ottimista di quella parlamentare. Segnata da taluni pregiudizi razziali e antropologici contro l’Isola, esprime pessimismo sull’integrazione della Sicilia con l’Italia e arriva paradossalmente ad individuare come unica soluzione alla Questione Siciliana l’indipendenza. «La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l’intelligenza e l’energia della sua popolazione, e l’immensa ricchezza delle sue risorse».
- 3 – I Fasci Siciliani
La Sicilia rientra ancora nella storia per la irrisolta Questione Agraria. Gli agrari sono ancora in possesso di vastissimi e improduttivi latifondi, non troppo diversamente dai tempi del feudalesimo. In Sicilia penetrano le idee socialiste, e queste hanno successo tanto tra gli operai e gli artigiani delle città, quanto soprattutto nelle campagne. Altro settore portante nel “primario” è lo zolfo. La Sicilia arriva ad estrarre i tre quarti dello zolfo mondiale, con metodi di produzione primitivi e rapporti di lavoro ai limiti della schiavitù (celebre il caso dei “carusi”, ragazzi di famiglie povere letteralmente venduti ai minatori, e che raramente arrivavano alla maggiore età); come nelle classiche colonie, tuttavia, la Sicilia non aveva quasi alcun ruolo nelle fasi successive di raffinazione dello zolfo o della realizzazione dei prodotti finiti.
L’occupazione francese della Tunisia, nel 1881, rappresentò un duro colpo per il commercio siciliano, che si era molto espanso sulla sponda opposta; questo non arrestò però il flusso migratorio, da vera colonizzazione demografica, che si era spinto verso quel paese. Le speranze che l’Italia prendesse un’iniziativa coloniale su quel versante però erano venute meno, e la conquista, circa 30 anni dopo, della Libia, non avrebbe avuto lo stesso effetto economico per la Sicilia, a parte il ruolo privilegiato che sarebbe stato assegnato al Banco di Sicilia, attraverso la controllata “Banco di Tripoli”, per l’emissione di moneta bancaria nel nuovo possedimento italiano.
Gli anni ’80 però vedono un’altra novità politica. Il mondo “socialista” si distingue ora nettamente dalla sinistra radicale estrema o repubblicana o anarchica e acquisisce una propria identità. Con il socialismo entrano in politica masse popolari che prima ne erano sempre state ai margini. È vero che, sin dai tempi dell’Antico Regime, il popolo era spesso intervenuto nelle rivolte, ma per “popolo” si intendeva spesso soltanto le corporazioni artigiane o i borgesi dell’entroterra, non il vero proletariato. Questo era progressivamente entrato in gioco nelle diverse rivoluzioni ottocentesche, fino al “Sette e mezzo”, ma sempre in una posizione subalterna, consegnando la guida politica alla fin fine alle solite élite, più o meno aristocratiche. Adesso il popolo più minuto, artigiano, ma ora anche operaio, diventa un soggetto sociale e politico autonomo. Dapprima, già subito dopo l’Unità d’Italia, si erano costituite diverse “società di mutuo soccorso”, soprattutto dopo lo scioglimento delle corporazioni religiose che in passato avevano svolto funzioni assistenziali, ma progressivamente queste assunsero anche una dimensione sindacale.
Il punto di fusione si ebbe quando questo mondo operaio e popolare, ma a poco a poco anche contadino, prese a incontrarsi con le idee socialiste.
Lo strumento politico-sindacale di questo nuovo mondo fu il “Fascio”, cioè la riunione in unica associazione di più organizzazioni appartenenti a varie categorie produttive. In questi Fasci, per la prima volta assoluta nella storia, molte iscritte donne, sia pure con una loro sezione, che inaugurano così la loro partecipazione attiva alla vita pubblica siciliana.
Se il primo “Fascio” ad essere costituito fu quello di Catania, nel 1891, ad opera del socialista (ma anche un po’ eclettico “cambiacasacca”) De Felice Giuffrida, più volte deputato, con finalità anche di tipo assistenziale, il più importante, dal punto di vista degli eventi successivi, fu quello di Palermo (aperto nel 1892, ad opera di Garibaldi Bosco), che divenne in breve il centro dell’agitazione “fascista” in tutta l’Isola. Se all’inizio questo si rivolgeva alle comunità operaie, ormai presenti un po’ in tutta l’Isola, ben presto il “fascismo siciliano” penetrò nelle campagne, tra i braccianti e i minatori dell’industria zolfifera, quasi sfuggendo di mano agli stessi organizzatori e diventando un fenomeno di massa. Ciò avvenne soprattutto dopo l’eccidio di Caltavuturo, nel 1893, quando l’esercito sparò su contadini colpevoli di avere occupato le terre demaniali di cui si era impadronita illegalmente la borghesia agraria del paese. Fu come una scintilla. In pochi mesi i Fasci in Sicilia contavano più di 70.000 iscritti, diventando così una minaccia per l’ordine costituito. Curiosamente, ma fino a un certo punto, il socialismo siciliano non aveva in sé nulla di materialistico o antireligioso, essendo tutt’al più anticlericale; si pensi che in tutte le sedi dei Fasci immancabile era l’immagine del Cristo e del santo protettore del paese. Intorno a questa massa contadina, intellettuali, ma anche borghesi illuminati e aristocratici “pentiti” si convertivano alla bandiera rossa.
A maggio del 1893 si tenne Congresso e i Fasci si diedero un’organizzazione più stabile, sotto il coordinamento del Fascio di Palermo. Il Bosco voleva inserire stabilmente i Fasci nel nascente Partito Socialista dei Lavoratori Italiano; De Felice voleva invece creare un partito autonomo siciliano. Si arrivò al compromesso di avere una sorta di partito proprio, con tanto di Comitato Centrale, bensì federato e integrato nel socialismo italiano. Furono costituite federazioni provinciali. Del Comitato centrale fecero parte un rappresentante per ogni federazione provinciale, più tre per la sola federazione di Palermo, la più organizzata e potente. All’inizio i Fasci facevano solo scioperi e manifestazioni sindacali, senza alcunché di sovversivo o rivoluzionario. Ma ai tempi lo stesso sciopero era in sé un fatto percepito come sovversivo.
I “borghesi” e gli “aristocratici” erano spaventati da questa presenza e chiesero aiuto al Governo, allora guidato dal siciliano Francesco Crispi. Questi impose lo stato d’assedio (1894) e affidò ancora una volta la Sicilia all’amministrazione militare, questa volta del generale Morra di Lavriano. I Fasci furono sciolti e i principali capi arrestati. Nonostante alcuni tumulti e la scelta, forse irresponsabile, del De Felice di puntare sull’insurrezione, il Governo ebbe la meglio. In Sicilia fu sospeso il diritto di associazione e riunione garantito dallo Statuto Albertino. Va anche detto che, nel momento decisivo, il Partito Socialista dei Lavoratori Italiano sconfessò i Fasci siciliani, determinandone il totale isolamento.
Crispi accusò in Parlamento i Fascisti di tramare con le potenze dell’Intesa (e in particolare con la Francia e la Russia) per “staccare la Sicilia dall’Italia”; ciò che sarebbe avvenuto in un misterioso “Trattato di Bisacquino”. Le opposizioni, a partire dall’autonomista Colajanni, ridicolizzarono l’accusa e ad essa gli storici oggi non danno molto credito. Sta di fatto che, ogniqualvolta la Sicilia alzasse la testa, arrivava implacabile l’accusa “infamante” di “separatismo”.
Degno di nota, segno di cambiamento dei tempi, fu il fatto che i dirigenti non vennero impiccati o fucilati, come sarebbe avvenuto solo trent’anni prima, ai tempi della Guerra al Brigantaggio, ma solo arrestati. Il processo, presso il Tribunale militare di Messina, si rivelò un boomerang mediatico per il Governo, che fu accusato di processare le idee, di essere ingiusto, di attaccare persone oneste colpevoli solo di difendere la povera gente. Nonostante le pene severissime comminate (fino a 18 anni di carcere), le questioni sociali e politiche poste restavano in agenda politica, né il socialismo era stato sradicato dalla Sicilia.
- 4 – La Sicilia tra Questione Agraria, Regionismo e Partiti popolari
E la repressione non poteva durare all’infinito mentre i tempi cambiavano. L’estensione del diritto di voto, voluta dalla Sinistra, favoriva alla lunga l’opposizione. Molti enti locali erano stabilmente amministrati dai “regionisti” (autonomisti) che a Roma erano isolati e non ottenevano nulla per la Sicilia ma che costituivano il nerbo della classe dirigente dei tempi. Anche il socialismo – come detto – non poté essere fermato. Catania mandò stabilmente per anni De Felice Giuffrida alla Camera, leader socialista siciliano di cui s’è detto. Nel frattempo anche il mondo cattolico si andava riorganizzando dopo la vera e propria dittatura liberale che datava dall’Unità d’Italia.
Crispi stesso, poco prima di essere sconfitto elettoralmente, stava pensando di metter mano ad una qualche forma di moderato decentramento amministrativo e di riforma del latifondo, quando la battaglia di Adua e il successivo crollo del suo governo fecero passare la mano sulla Questione Siciliana al suo successore. Nel 1896 ritornarono al potere i moderati, dopo un ventennio di opposizione. Ma la nuova destra, del Di Rudinì, siciliano, era piuttosto diversa dalla vecchia Destra Storica. Intanto era “trasformista” non meno della Sinistra che aveva governato in precedenza. E poi era meno caratterizzata in senso nordista della prima. Di Rudinì, anche se era stato campione dell’Unità ai tempi del “Sette e mezzo”, era pur sempre un siciliano, non insensibile nei confronti dei problemi dell’Isola. Tentò un decentramento nel 1896, sostituendo ai Commissari militari dello stato d’assedio, un Alto Commissariato Civile che coordinasse l’amministrazione pubblica in Sicilia, un po’ come gli antichi Luogotenenti, un po’ anche per rispondere alle pressanti esigenze di decentramento. A questo Commissario i Socialisti di Palermo, eredi dell’esperienza dei Fasci, presentano un celebre memorandum per la soluzione della Questione Siciliana, che era sì sociale ed economica, ma anche politica. I socialisti chiedono Autonomia per la Sicilia, dopo più di 30 anni di occupazione militare nordista e di continue repressioni, l’introduzione del suffragio universale e la nazionalizzazione dell’industria zolfifera. L’autonomismo dei socialisti siciliani, però, fu ancora una volta sconfessato da quelli italiani, in Parlamento a Roma, determinando tra le due formazioni una progressiva frattura. Solo i cattolici moderati diedero ascolto alle richieste che venivano dalla Sicilia, ma naturalmente non se ne fece nulla.
Il Commissariato Civile del resto durò solo un anno (1896-97), sia perché era nato come un esperimento provvisorio, sia per la fiera opposizione parlamentare, che vide in questo esperimento una sorta di attentato all’Unità d’Italia.
Con tutto ciò la Sicilia non si può dire non partecipi del generale processo di crescita dell’economia dei tempi. Si è detto del tentativo, inibito, di costituire una banca privata d’emissione già al 1860. Ma più in generale la comunità commerciale e finanziaria doveva essere abbastanza viva se, ad esempio, gli agenti di cambio nella Borsa di Palermo sarebbero cresciuti dai soltanto due del 1844 ai venti del 1876, oltre all’azione di altre borse valori attive, come quella di Agrigento, Catania, e soprattutto Messina, l’eterna rivale economica di Palermo. Queste altre borse siciliane, però si sarebbero spente prima della fine del secolo e la stessa borsa di Palermo si sarebbe avviata ad un lento e inesorabile declino con il secolo successivo per la progressiva integrazione dei mercati finanziari nazionali.
Gli anni ’90 avevano visto la Sicilia, e soprattutto Palermo, protagonista di una piccola rivoluzione industriale, partita da lontano, e guidata soprattutto da capitale straniero e dai settori dei trasporti navali, del vino e dello zolfo. Principali protagonisti di quest’epoca furono i Florio, famiglia industriale locale, proveniente dalla Calabria. La Sicilia della Belle Epoque è segnata dallo stile Liberty e dall’illusione di creare un polo di sviluppo economico contrapposto a quello del Triangolo industriale, culminato nell’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-92. Ciò che mancò all’industria siciliana fu, ancora una volta, il sostegno di uno stato, mentre quello italiano era sistematicamente rivolto a difendere gli interessi dell’economia nordista e ciò, sulle lunghe distanze, avrebbe fatto la differenza. È pur vero che con il Regno d’Italia la Sicilia conobbe finalmente le ferrovie, quando il Regno delle Due Sicilie aveva appena licenziato un “progetto” nel 1860, che poi sarebbe stato continuato dal nuovo regime. Ma la realtà è che la Sicilia, come nel passato regime, era sempre la “retroguardia” del Paese, dove gli investimenti e le innovazioni arrivavano, certo, ma buone ultime dopo che tutte o quasi le altre aree del paese erano state servite. Così, dopo un lungo progetto che era portato avanti da decenni, e dopo la liquidazione definitiva dei vecchi “banchi comunali”, nel 1860, si diede vita alla prima Cassa di Risparmio siciliana (la “Vittorio Emanuele”) che poi nel tempo sarebbe diventato il secondo istituto di credito nell’Isola. Ma nel complesso gli investimenti in infrastrutture siciliane erano sempre particolarmente lenti. Solo nel ’900 inoltrato poté essere completata la ferrovia Palermo-Messina. Solo nel 1920 fu istituita la prima “Scuola superiore di commercio” a Palermo (antenata delle Facoltà di Economia e Commercio), quando a Venezia era stata istituita già nel 1869. E così potrebbe dirsi per qualunque altra branca dell’amministrazione o degli investimenti pubblici.
Nel frattempo l’emigrazione, soprattutto verso “le Americhe” raggiungeva proporzioni mai conosciute prima d’allora. La Sicilia, da sempre e soltanto terra d’immigrazione nella sua lunghissima storia, dopo l’Unità d’Italia diventava terra di emigrazione, anzi di vero e proprio esodo. Qualche beneficio tuttavia si ebbe da questa ondata di emigrazione: l’innalzamento dei salari agricoli per il rarefarsi della manodopera rurale, il ritorno e il reinvestimento terriero degli “americani”, agli inizi del XX secolo, con una progressiva erosione dell’eterno latifondo.
Gli ultimi anni del secolo e i primi del nuovo videro una polarizzazione autonomista della politica siciliana, e per la prima volta una aggressione mediatica italiana nei confronti della Sicilia in quanto tale, accusata in blocco di essere mafiosa o comunque terra dell’illegalità. In effetti la mafia ormai dominava incontrastata, e lo aveva dimostrato con l’uccisione dell’integerrimo Cav. Notarbartolo che aveva rilanciato il Banco di Sicilia facendone una grande banca nazionale, ma impermeabile alle pressioni di certo potere locale. Dell’uccisione fu ed è considerato storicamente responsabile il deputato crispino Raffaele Palizzolo, referente politico della mafia, ma non si arrivò mai a una condanna definitiva, essendo questi assolto per insufficienza di prove, forse per immancabili appoggi nella Roma che contava.
Il capitalismo nascente siciliano, l’unico presente a sud di Roma, non solo non era facilitato dal Governo italiano, ma addirittura era osteggiato. Fu il più importante degli industriali siciliani del tempo, Ignazio Florio, a comprendere che per difendere la Sicilia occorreva un’azione politica. Fondò a tale scopo il giornale “L’Ora” a vocazione apertamente meridionalistica, e riuscì a creare un fronte comune con gli agrari, intorno al “Progetto Sicilia”, contro le politiche liberticide e antimeridionali del Pelloux.
Nonostante la stragrande vittoria elettorale alle elezioni politiche del 1900, i deputati siciliani non si rivelarono determinanti per le maggioranze nazionali, e quindi l’Italia continuò a perseguire le sue politiche protezionistiche antisiciliane. La Sicilia stava pagando ora, ancora una volta, l’assenza di uno stato proprio a difendere la spontanea rivoluzione industriale che aveva conosciuto, e veniva così condannata al regresso economico. L’uccisione di re Umberto I, e la strategia della tensione che ne derivò, fecero sfilare gli agrari dalla coalizione, facendo deflagrare il progetto politico così difficilmente imbastito.
Nelle grandi città, ancora, le sinistre “popolari” (essenzialmente socialiste, ma anche radicali, repubblicane, etc.) avevano preso il potere, tanto a Palermo (con il principe “rosso” Alessandro Tasca di Cutò), quanto a Catania, quanto a Messina. La Sicilia sembrava una polveriera. Nel fronte “popolare” si segnala ora un nuovo impegno dei cattolici in politica, guidati da Luigi Sturzo; questi non sono più notabili o clericali, ma ormai sensibili alle esigenze sociali dei ceti più deboli e avviati a costituire una nuova formazione di massa, man mano che la partecipazione alle elezioni si estendeva sempre più (nel 1913 le prime elezioni a suffragio quasi universale).
Ci furono altri conati sicilianisti, anzi indipendentisti, nella Sicilia della Belle Epoque. Uno fu quello legato al citato processo di mafia contro Raffaele Palizzolo. Il linciaggio mediatico che avvolse la Sicilia nel caso ebbe sostanzialmente l’effetto di fare solidarizzare gran parte della classe dirigente siciliana con il poco raccomandabile deputato “di sinistra” (sinistra liberale naturalmente, la sinistra “vera”, di Colajanni, peraltro anche lui sicilianista, lo avversò sempre), attraverso il comitato “Pro Sicilia”. Ma fu un’agitazione di breve durata, anch’essa a suo modo spia dell’insoluta Questione Siciliana.
Più seria e diffusa fu la sollevazione politica a favore del Ministro trapanese Nunzio Nasi, accusato per motivi sostanzialmente futili, e “reo” in realtà di opporsi al blocco di Giolitti tra l’industrialismo del Nord e gli agrari del Sud, contro gli interessi dell’industria e del commercio estranei a questo accordo, in particolare a quelli dell’imprenditoria siciliana, proprio dal Nasi rappresentata. Di questi anni è la nascita di un primo partito sicilianista organizzato: il Partito Siciliano, nel 1908, ma in realtà più “lobby interpartitica” che non partito vero e proprio nel senso moderno del termine. La dura esperienza giudiziaria fece maturare a Nasi un forte orientamento autonomistico, che culminò in un programma politico nel 1913. Il “nasismo”, tra i cui sostenitori troviamo un giovane Andrea Finocchiaro Aprile, attirava molti esponenti politici siciliani di varie estrazioni, ma non arrivò mai forse a raggiungere quella massa critica necessaria ad influenzare stabilmente gli equilibri nazionali.
Si segnala, in questo inizio di secolo, il devastante terremoto e tsunami dello Stretto, nel 1908, da cui la città di Messina non si sarebbe mai più definitivamente ripresa. Veniva superata ora demograficamente ed economicamente da Catania, che da quel momento avrebbe costituito il principale polo commerciale e industriale alternativo a Palermo. Nella tragedia, la grande città siciliana avrebbe trovato più sostegno dalla marina russa, che non dal distratto governo italiano.
L’entrata dell’Italia nella I Guerra mondiale congelò infine questa ventata di autonomismo e popolarismo, sospendendo la vita politica normale e mobilitando tutto il Paese per la Grande Guerra. La Sicilia diede decine di migliaia di morti per una guerra lontana e incomprensibile, dove molti coscritti neanche comprendevano gli ordini perché dati in una lingua, l’italiano, ancora poco intelligibile per la maggioranza dei Siciliani.
- 5 – La Sicilia sotto il Fascismo
La vittoria – come è noto – non vide se non per pochi anni la ripresa di una vera vita politica liberale. Le elezioni a suffragio universale del 1913, quelle con il proporzionale nel 1919 e nel 1921, videro stabilmente in maggioranza le varie correnti del sicilianismo liberale di centro-sinistra, seguite dai socialisti riformisti (ex “fascisti siciliani”) e dai popolari sturziani, che declinarono anche loro l’autonomismo, ma questa volta di segno cattolico. Furono anni molto “caldi” dal punto di vista politico e sociale, caratterizzati da agitazioni e occupazioni di terre e di fabbriche. Gli agrari, anche loro con toni sicilianisti, forse addirittura separatisti, si organizzarono in un partito a sé. Nonostante la crisi politica, il liberalismo rimase egemone, soprattutto intorno alla figura di Vittorio Emanuele Orlando, almeno fino alle consultazioni amministrative del 1925, le ultime parzialmente libere. Più resistenti di tutti al fascismo si dimostrarono i democratico-sociali di Antonio Colonna di Cesarò, singolare figura di aristocratico antifascista, anticlericale e di ispirazione esoterica e teosofica: fu tra i protagonisti dell’Aventino e del fallito attentato a Mussolini del 1926.
La Sicilia, ad ogni modo, non ebbe il tempo di far sentire la propria voce dopo la Grande Guerra giacché fu schiacciata nuovamente dal Regime fascista (che nulla ha in comune con i Fasci siciliani, se non il nome e una vaga origine socialista). Regime alla cui nascita e diffusione la Sicilia non partecipò più di tanto, salvo poi essere costretta ad accettarlo senza per contro troppe reazioni, almeno in superficie. Nei due plebisciti, del 1929 e del 1933, con le buone o le cattive, i Siciliani di sesso maschile furono costretti a dire SI ad una rappresentanza parlamentare in cui gli interessi territoriali erano quasi azzerati: 99,9 % di SI nel 1929, 100,00 % di SI nel 1933. Poi, dal 1937, non furono neanche più interpellati. Anzi i Siciliani escono quasi del tutto dalla “Camera dei Fasci e delle Corporazioni” che prese il posto della Camera dei Deputati, all’infuori di 8 segretari federali locali del Partito Nazionale Fascista. Sotto il fascismo ogni barlume di attività politica in Sicilia fu divelto. Le uniche opposizioni clandestine che riuscirono a sopravvivere furono quelle del partito comunista, assai minoritaria e settaria, e di alcuni circoli sicilianisti che – poco a poco – avrebbero preso per reazione un colore definitivamente separatista.
Il fascismo portò avanti una politica di autarchia, come è noto. Questa comportava l’esistenza di un solo polo industriale in Italia. Per la Sicilia, che era l’unica regione del Mezzogiorno ad avere avuto una sorta di piccola rivoluzione industriale alla fine del secolo, questo significò lo smantellamento del sistema industriale e il ritorno alla retorica del “granaio dell’impero”. La posizione del regime sul latifondo era quella di non spezzarne la proprietà, ma di favorirne la “colonizzazione”: si voleva cioè riportare la massa contadina, da secoli concentrata in borghi agricoli, dispersa nelle campagne. Ma tale politica fu un totale fallimento.
Già Crispi aveva costretto a spostare da Palermo a Genova il centro dell’attività portuale italiana, costringendo la Flotta Florio a fondersi con la Rubattino di Genova, nella nuova Navigazione Generale Italiana. Le politiche industriali avevano da sempre favorito il Nord, ma sotto il fascismo questa politica fu accelerata e non fu consentita alcuna dinamica di segno opposto, per quanto debole.
Il divario tra Nord e Sud accelerò durante il fascismo come mai era accaduto in più di mezzo secolo di storia unitaria. Gli ultimi residui di sovranità siciliana (la Corte di Cassazione e l’Istituto di Emissione) furono aboliti, le riserve auree siciliane confiscate e trasferite in Banca d’Italia senza alcun indennizzo. Pure va detto che, come in tutta Italia del resto, furono introdotte in Sicilia infrastrutture moderne, come la rete delle strade statali, o i primi aeroporti, o innovazioni sociali che andavano emergendo in tutta Europa, come le tutele previdenziali obbligatorie o la costruzione di nuovi insediamenti di edilizia popolare.
Si deve al fascismo anche un cambiamento interno geopolitico stabile della Sicilia. Furono aboliti i circondari, che riflettevano ancora i vecchi distretti del Regno di Sicilia, e in cambio, oltre ad accentrare i poteri nei prefetti a capo delle province, ne furono create due nuove: Ragusa (per trasformazione del vecchio distretto di Modica, già appartenente a Siracusa), ed Enna (per accorpamento dei distretti di Nicosia e Piazza Armerina, già appartenenti, rispettivamente, a Catania e Caltanissetta). Notevole fu il ritorno dei nomi di molti comuni per superare la presunta “barbarie” araba o medievale a quelli antichi greci: Monte di S. Giuliano divenne Erice, Girgenti divenne Agrigento, Adernò divenne Adrano, Castrogiovanni divenne Enna, Terranova divenne Gela, e così via. Queste ridenominazioni sarebbero state destinate a permanere oltre la caduta del regime, ma non così Ionia, tentativo di fusione tra Giarre e Riposto. Non fu possibile cambiare il nome invece a Caltanissetta, araba nel nome sin dalla fondazione e priva di precedenti classici.
Anche la mafia, come strumento di intermediazione tra Stato e Sicilia, da sempre organica alla politica del nuovo stato italiano, non fu più tollerata, giacché il regime non poteva dominare la Sicilia accettando poteri o mediazioni locali. Si diede inizio ad una spettacolare repressione del fenomeno, inviando in Sicilia il “prefetto di ferro” Mori. I metodi di sradicamento furono brutali, ad esempio interrompendo le forniture di acqua a interi paesi, e forse colpendo più i contadini che i mafiosi. In realtà il sistema mafioso era stato inglobato nelle strutture di partito e della milizia e, quando il prefetto di ferro toccò i santuari di questa collusione, il suo lavoro fu dichiarato terminato ed egli fu trasferito altrove. Con tutto ciò la Sicilia non pareva del tutto pacificata. Mussolini ne era forse ossessionato. In un’affermazione si lasciò scappare che ne aveva affidato la gestione al “Ministro per le Colonie”, in altre che avrebbe voluto riedificare tutte le città siciliane, secondo un modello rinascimentale italiano, in modo da divellere ogni traccia dell’arte e della cultura siciliana, in altre ancora espresse il proposito di “interrare” lo Stretto di Messina, perché non si parlasse più di Isola.
Il regime, in altri termini, percepiva l’alterità della Sicilia come una potenziale minaccia all’unità nazionale, ma non sapeva trovare altri strumenti che quelli della repressione. Come nei più bui giorni borbonici, lo stesso uso del termine “Sicilia” era mal sopportato se non riferito strettamente al dato geografico.
- 6 – Il Separatismo e la conquista dell’Autonomia Speciale
Nel 1941 la Sicilia fu oggetto di un massiccio provvedimento di deportazione di funzionari e dirigenti, anche di medio livello, per un esagerato sospetto di covi separatistici nella burocrazia isolana. Il regime non perdeva occasione per mortificare la Sicilia.
La II guerra mondiale fece il resto. Nonostante la propaganda di regime, il disagio aumentava di giorno in giorno. La Sicilia diventò l’avamposto mediterraneo delle potenze dell’Asse e la retrovia per le campagne d’Africa condotte in Libia.
Nel 1943 il rovescio finale: tutto il Nordafrica è occupato dagli Alleati e la Sicilia è in prima linea, soggetta ad una martellante campagna di bombardamenti. Già nel 1942 si erano costituiti i CIS (Comitati Indipendentisti Siciliani, clandestini) e l’indipendentismo era quindi l’unica forza politica realmente organizzata prima dello Sbarco degli Alleati. Questi, probabilmente con l’appoggio di fuoriusciti di Cosa Nostra che avevano mal sopportato le repressioni fasciste, sbarcano in Sicilia, nel Val di Noto, il 10 luglio del 1943. Gli USA attaccano l’ovest, a partire da Gela, dove trovano una debole resistenza delle truppe italiane. Gli Inglesi attaccano l’est, a partire da Siracusa, dove trovano invece un’accanita resistenza tedesca. Agli inizi di agosto si ritrovano entrambi ad entrare a Messina, gli Americani che avevano fatto tutto il giro della Sicilia dalla parte tirrenica, e gli Inglesi che erano risaliti più lentamente dalla costa ionica. La Sicilia, occupata, fu affidata al Governo dell’AMGOT del Gen. Charles Poletti. La storia generale successiva è nota: l’Italia firma a Cassibile l’armistizio l’8 settembre, gli Alleati risalgono lentamente la Penisola, la Guerra finisce con la disfatta delle potenze dell’Asse.
Nelle prime settimane in Sicilia si è quasi certi che sia finita la dominazione italiana. In maniera semiclandestina la politica riprende ad organizzarsi. All’inizio la forza più ampia è quella degli indipendentisti, riuniti nel MIS (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia), che credono di avere il favore degli Alleati e che arrivarono a contare centinaia di migliaia di militanti. Ma anche i politici tradizionali, liberali, democristiani, socialisti e comunisti, si riorganizzano, propendendo di più per una soluzione autonomista alla Questione Siciliana.
Probabilmente, in ambienti britannici, l’idea di una Sicilia indipendente fu presa seriamente in considerazione. La visita in Sicilia, nel dicembre 1943, del ministro sovietico Vyshinsky, gelò però questa prospettiva. La Russia, infatti, di fronte alla richiesta di una Sicilia indipendente in area anglosassone avrebbe chiesto come contropartita una parte delle colonie italiane d’Africa, ad esempio la Cirenaica. Dal punto di vista USA era preferibile costruire un’Italia intera sotto la loro influenza, anziché una piccola Sicilia sotto la sola influenza britannica. La visita del comunista Montalbano alla delegazione russa di Vyshinsky, così come quella del democristiano Mattarella al console USA (finalizzata a “spaventarlo” da una pretesa eccessiva del Regno Unito su uno stato indipendente siciliano) smossero le due più grandi potenze contro la causa della “Repubblica Siciliana”. La Gran Bretagna fu costretta ad accodarsi. Da quel momento in poi, perciò, nonostante qualche simpatia dell’AMGOT, gli Alleati abbandonarono poco a poco la causa siciliana. Nel febbraio del 1944 riconsegnarono così la Sicilia all’Italia, allora loro alleata, con la promessa di concederle almeno una amplissima autonomia.
L’Amministrazione alleata accolse infatti la presentazione di un progetto (redatto dal Vacirca, siculo-americano) che era una sorta di indipendenza appena velata da una blanda confederazione con l’Italia e la consegnarono all’Italia per i successivi sviluppi. L’Italia, nel riprendere possesso della Sicilia, rispolverò l’antico istituto dell’Alto Commissariato Civile (già sperimentato nel 1896/97), con un’amministrazione quasi del tutto separata da quella del resto del Paese. A fianco del Commissario fu creata una Giunta di nove membri. L’Alto Commissario veniva preposto a “tutte le amministrazioni civili dello Stato, degli Enti locali e degli Enti ed istituti di diritto pubblico ed in genere a tutti gli Enti sottoposti a tutela o vigilanza dello Stato”, coordinava altresì “l’azione dei prefetti”. In pratica la Sicilia tornava ad avere un’amministrazione statale in tutto e per tutto separata da quella italiana, con le sole seguenti esclusioni: “amministrazione della giustizia”, “amministrazioni della guerra, della marina e dell’aeronautica”, “applicazione delle leggi fiscali e degli ordinamenti contabili dello Stato”. Lo Stato quindi, nominato l’Alto Commissario, teneva per sé solo la giustizia, i corpi armati, le intendenze di finanza e le dogane, le direzioni provinciali del tesoro. Lo status definitivo della Sicilia era per il resto ancora incerto.
Peraltro, nonostante la defezione degli Alleati, ormai il Separatismo aveva messo salde radici e non era facile da rimuovere. Vi furono disordini, come la Rivolta del “Non si parte” (in cui i Siciliani si rifiutavano di prendere le armi nuovamente con la divisa italiana a fianco degli Alleati) o la “Repubblica di Comiso”, o il moto separatista di Catania, e repressioni selvagge tra cui la cd. Strage del pane di Palermo di Via Macqueda (oggi “Maqueda”).
Il primo Alto Commissario, il socialista Francesco Musotto, indicato sostanzialmente dagli Alleati, considerato simpatizzante delle idee indipendentiste, fu sostituito a luglio 1944 con il più centralista Aldisio, il quale avrebbe garantito un più pronto ritorno all’ordine unitario. Detta sostituzione fu certamente concordata con gli Alleati che nel frattempo prendevano a disinteressarsi sempre più della Questione Siciliana, anche se bisogna attendere solo la seconda metà del 1944 per una dichiarazione esplicita di Roosevelt sull’indissolubilità dell’Unità d’Italia. A fine anno fu costituita una Consulta, larva di ricostituito Parlamento di Sicilia, nominata dal Governo, ma che costituiva una sorta di “Stati generali” della Sicilia, in cui erano rappresentate tutte le parti sociali e tutti i partiti dell’eptarchia (DC, PSIUP, PCI, PLI, PRI, Pd’Az, PDL). Tutti all’infuori dei separatisti. Quando fu “trovato” un componente indipendentista, l’Alliata di Pietragliata, questo fu costretto alle dimissioni dal rinato parlamento siciliano. Il MIS, che contava più militanti di tutti gli altri messi insieme, era quindi l’unico partito organizzato ad essere escluso dal nuovo ordine. Nondimeno tra le fila della Consulta vi erano moltissimi ex separatisti o ferventi autonomisti che propendevano per dare soluzioni radicali alla Questione Siciliana, anzi – a dirla tutta – proprio questi erano in netta maggioranza.
La ricostituzione del “parlamentino”, seppure ottriato, di Sicilia fu anche occasione per lo Stato di riprendersi qualche altra funzione oltre a quelle che si era riservate a marzo: ora fu la volta dell’istruzione superiore (le Università e Accademie), del credito e della tutela del risparmio. Al Commissario, su voto consultivo della Consulta, era data la possibilità di emanare norme quasi legislative: disposizioni concernenti l’agricoltura, le foreste, l’industria, il commercio, il lavoro, le comunicazioni e gli approvvigionamenti. Il Parlamento di Sicilia e la sua autonomia legislativa sembrava risorgere dalle ceneri. Agli uffici periferici dello Stato sotto il coordinamento dell’Alto Commissario era dato un portafoglio autonomo nel bilancio dello Stato 1945/46, trasformando l’amministrazione siciliana di fatto in un “ministero aggiuntivo” rispetto a quelli centrali, dotato di propri capitoli di spesa.
C’era in quei giorni un grande fervore per la ricostruzione e un grande ottimismo. Presso l’Alto commissariato fu costituito un Comitato regionale per la bonifica e la colonizzazione siciliana per il settore agricolo, e una Sezione di credito industriale presso il Banco di Sicilia, dotata di proprio comitato tecnico-amministrativo, con reddito esentasse, per la ricostruzione industriale. A tal fine i due miliardi di lire stanziati dal Governo Bonomi furono assegnati per un quarto alla Sicilia. La Sicilia che stava minacciando il Separatismo acquistava un peso specifico enorme nell’Italia post-bellica. Doveva essere corteggiata perché non fuggisse. Furono disposte agevolazioni fiscali per gli investimenti industriali, esenzione da dazi per l’importazione di macchinari, possibilità di istituire depositi franchi e agevolazioni per i trasporti ferroviari e marittimi. Questo era il prezzo da pagare per far dimenticare l’indipendenza ai Siciliani. Nessuno poteva allora immaginare che lo Stato, soffocato il Sicilianismo, si sarebbe naturalmente rimangiata ogni concessione o promessa.
Da questo momento la storia siciliana si decideva su due piani. Su un piano politico la Consulta espresse una Commissione ristretta, costituita dai rappresentanti dei Partiti, dall’Alto Commissario, e da tre professori universitari di diritto amministrativo, per stabilire quale dovesse essere lo Statuto di Autonomia della Sicilia. Su un altro piano il Separatismo veniva combattuto in senso militare e politico.
Con le blandizie, o con pressioni di ogni tipo, il Governo italiano ritornato in Sicilia si assicurava sempre di più il terreno. A un certo punto arrivò a far distruggere le sedi del MIS con azioni di terrorismo istigate dal Governo. La risposta degli indipendentisti fu il ricorso alla lotta armata, per mezzo della costituzione dell’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), guidato da un professore universitario di idee marxiste, Antonio Canepa. Nel MIS confluivano infatti le posizioni più variegate: si andava dai monarchici siciliani e dagli agrari a destra, ai democratici liberali, come il leader Andrea Finocchiaro Aprile, all’ala cattolica, a quella socialista, o di sinistra, come quella rappresentata da Antonio Varvaro, fino agli indipendentisti comunisti, sconfessati però dal PCI e dal Comintern guidato dall’URSS. Tra questi il Canepa, già ideatore di un tentativo di assassinio di Mussolini, e che si era poi fatto riabilitare facendosi passare come soggetto ad esaurimento nervoso. Era così diventato un docente di Dottrina fascista all’Università di Catania, dissimulando il proprio pensiero in quello ufficiale del regime. Animo inquieto, già partigiano al nord, poi in contatto con i servizi britannici, approda infine alla guerriglia separatista, di cui diventa l’ideologo. Suo il celeberrimo “La Sicilia ai Siciliani”, opuscolo che per i decenni a venire avrebbe rappresentato il punto di riferimento dell’indipendentismo più movimentista. Secondo il Canepa la questione sociale, che in Sicilia era soprattutto questione agraria, non era risolvibile se prima non si fosse realizzata l’emancipazione nazionale. A quel punto gli agrari, ad indipendenza conquistata, avrebbero dovuto dare le loro terre, se non avessero voluto dare “le loro teste”.
Uno dei problemi insoluti dell’indipendentismo fu il loro assoluto isolamento internazionale. Le aderenze di Finocchiaro Aprile, nato e cresciuto in ambiente massone e anglofilo, non bastarono, forse perché quello stesso ambiente aveva sconfessato la rivendicazione sicilianista. Le lettere dello stesso ai grandi del mondo o alla conferenza fondativa delle Nazioni Unite di San Francisco non ebbero risposta. Secondo alcuni storici solo la Grecia e il Venezuela avrebbero proposto di rispondere al MIS, ma in ogni caso, per gli Alleati, con la concessione dell’Autonomia per loro il “caso” siciliano era chiuso.
La lotta armata determinò la messa fuori legge del MIS e l’arresto di molti suoi militanti, nonché la deportazione a Ponza di quelli che erano ritenuti i massimi responsabili: il Presidente Finocchiaro Aprile, il Segretario Varvaro e Restuccia, massimo esponente del movimento a Messina.
La guerra civile ebbe fasi alterne. Ucciso il Prof. Canepa in un agguato nei pressi di Randazzo, gli indipendentisti cercarono appoggio tra i banditi datisi alla macchia, nel caos bellico, come il famoso Turi Giuliano, che divenne colonnello dell’EVIS, e poi dei Fratelli Avila, che si macchiarono di molti efferati delitti comuni. Giuliano, a differenza di altri briganti, sia pure con la sua semplicità contadina, credette veramente alla guerra di liberazione, condotta con vere e proprie azioni terroristiche nei confronti della presenza armata dello Stato in Sicilia, ovvero dell’Arma dei Carabinieri.
Mentre il 1945 scorreva in modo così drammatico, nella Consulta si preparava il futuro della Sicilia. L’Alto Commissario e il La Loggia puntavano ad un autonomismo ridotto, o riparazionista, che risolvesse le questioni storiche della Sicilia in modo sostanzialmente assistenziale. Le sinistre riscoprirono la loro antica vena autonomista in chiave sociale, presentando un loro progetto originale, dovuto al Mineo. Ma la maggioranza della Consulta era per un autonomismo radicale e confederale, ai limiti della piena indipendenza. Il progetto Guarino Amella, appena più moderato rispetto a quello originario di Vacirca, godeva dei maggiori consensi. Alla fine il Prof. Salemi, partendo da questo progetto, lo smussò appena su alcuni punti, per avere l’accordo dell’Alto Commissario, e su quel testo ottenne la fiducia, prima della Commissione ristretta e poi della Consulta. Ma, nonostante le limature del Salemi, i contenuti del documento restavano assai forti. La comunità politica italiana era recalcitrante rispetto a una domanda di Autonomia della Sicilia così radicale, sebbene anche in Italia si stesse pensando di cogliere questa occasione per superare il centralismo napoleonico e ricostruire il nuovo stato su basi decentrate e regionali.
La situazione precipitò nel dicembre 1945, quando si ebbe una vera e propria battaglia tra l’esercito italiano e l’EVIS a San Mauro, presso Caltagirone. Il Governo, a quel punto, era deciso a chiudere la Questione Siciliana in qualsiasi modo. Si avviarono trattative riservate con i Separatisti in prigione: se il progetto Salemi – Guarino Amella fosse stato licenziato, gli indipendentisti si sarebbero limitati a chiederne il rispetto rinviando sine die la richiesta dell’indipendenza e sciogliendo la lotta armata; in cambio venivano scarcerati tutti i prigionieri politici e il MIS avrebbe potuto riprendere la propria attività politica, seppure danneggiata dalla repressione statale.
Il gennaio 1946 vide così la pacificazione della Sicilia, ma anche la difficoltà dei Separatisti, ormai emarginati nella società e dispersi, a riorganizzare la propria attività politica a così pochi mesi dalle elezioni dell’Assemblea Costituente, dopo che il movimento era stato ormai del tutto disarticolato nel territorio.
Nel frattempo la Commissione Statuto chiudeva i propri lavori. In breve il Progetto di Statuto fu approvato dalla Consulta Siciliana. Lo Statuto Siciliano quindi risultò elaborato in Sicilia, quasi da un’Assemblea Costituente, e non concesso dall’Italia. Il Consiglio dei Ministri, che allora aveva ancora funzioni legislative, si limitò a ratificarlo senza alcuna modifica, portandolo alla firma di Re Umberto II, in piena campagna referendaria tra monarchia e repubblica.
La Consulta stava per cedere il posto ad una Assemblea elettiva, dagli amplissimi poteri legislativi e finanziari. L’Alto Commissario avrebbe dovuto cedere i propri poteri a un Presidente regionale espressione del rinato Parlamento. Lo Stato avrebbe mantenuto nell’Isola solo una magistratura totalmente decentrata, un Commissario per il controllo della Regione, nonché le forze armate. Tutto il resto, imposte e polizia inclusi, dovevano passare ad una Regione quasi-stato. Tra i politici dei partiti italiani molti sinceri autonomisti credevano di avere risolto per sempre la Questione Siciliana.
Il 15 maggio 1946 la Sicilia così vedeva solennemente riconosciuta la propria Autonomia. Il sogno di Autogoverno di generazioni era diventato finalmente realtà. Tra Sicilia e Italia sembrava esserci ormai la pace, e lo stesso indipendentismo perdeva, almeno in apparenza, ogni ragion d’essere ed entrava nell’ombra.
Cronologia politica:
maggio – dicembre 1860 Stato di Sicilia (dittatura garibaldina)
maggio-luglio Governo di Francesco Crispi (sotto la dittatura diretta di Giuseppe Garibaldi) (sostituito poi per pochi giorni da Giuseppe Sirtori)
Prodittatori:
luglio-settembre Agostino Depretis
settembre-dicembre Antonio Mordini
dicembre 1860 – marzo 1861 “Province Siciliane annesse al Regno di Sardegna”
Luogotenente generale, m.se Massimo Cordero di Montezemolo
1861-1946 Regno d’Italia
Luogotenenti:
marzo-aprile 1861 m.se Massimo Cordero di Montezemolo
aprile-settembre 1861 generale Alessandro della Rovere
settembre 1861-gennaio 1862 generale Ignazio De Genova di Pettinengo
Commissari straordinari:
gennaio-agosto 1862 generale Efisio Cugia di S.Orsola
agosto-dicembre 1862 generale Enrico Cialdini
1866 Comitato provvisorio rivoluzionario (Rivolta del Sette e Mezzo): Presidente Francesco Bonafede, p.pe di Linguaglossa
1896-1897 Alto Commissario Civile per la Sicilia: c.te Giovanni Codronchi Argeli
1925-1943 Regime fascista
1943-1944 Occupazione alleata: Governo AMGOT di Charles Poletti
Alti Commissari Civili per la Sicilia:
1944 Francesco Musotto (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria)
1944-1946 Salvatore Aldisio (Democrazia Cristiana)
1946 Igino Coffari (indipendente)
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