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La Finanza siciliana dopo gli accordi di Crocetta e Musumeci: un quadro riassuntivo (prima parte)

Mi sarei un po’ stufato di leggere questi continui peana di nordisti che “non ne possono più” di mandare soldi al Sud (a alla Sicilia, poi, non ne parliamo), sventolando le solite statistiche farlocche sul residuo fiscale. So che non li bloccherò certo così, ma un punto fermo per iscritto va messo. Va messo proprio mentre l’ineffabile De Luca, come già Musumeci prima di lui, va a “costituirsi” a Pontida, cioè da chi di quella truffa è il principale beneficiario.

Abbiamo già detto, qui, che fino al 2013 già l’impianto dello Statuto, fondato sulla totale autosufficienza della Sicilia, era stato violato a favore dello Stato. Non ripetiamo quanto detto in quella sede. Ma, in breve, la gran truffa, a parte mille mezzucci minori, era fondata sull’attribuzione alla Sicilia su ciò che si presumeva fosse “riscosso”, mentre ciò che era “maturato” in Sicilia prendeva altre vie. Non era un furto che avesse fondamento giuridico, né nello Statuto del 1946, né nel decreto attuativo del 1965. Ma funzionava.

Ora, come è noto, Lombardo, con le contraddizioni che abbiamo visto, spinto soprattutto dalla “piazza”, cioè dalla Rivolta dei Forconi (2012), chiede con un documento ufficiale l’applicazione integrale dello Statuto: mai più una lira dall’Italia, mai più una lira all’Italia. In poche parole, tranne le pochissime perequazioni previste dallo Statuto e dalla Costituzione, e tranne le pochissime entrate riservate allo Stato per le funzioni comuni, la Sicilia vuole fare da sé.

Il risultato di questa proposta fu una “non risposta”. I giornali, dopo una settimana, strombazzarono l’imminente fallimento della Regione e, vedendo che Lombardo non si smuoveva, si trovò un’intercettazione secondo la quale era “mafioso”, e con questo pretesto, poi rivelatosi infondato, fu destituito, manu militari, per essere sostituito da un governo commissariale, cioè quello di Crocetta.

Sì, un governo commissariale, di cui TUTTI i partiti sono complici. La destra, sapendo di essere egemone, decide di far posto alla sinistra, cui affidare il lavoro sporco di aggredire la Sicilia. Come? Presentando ben due candidati alla Presidenza, Micciché e Musumeci, che si fanno la guerra, con accordi sottobanco da parte di qualcuno per votare a sinistra. La sinistra, con Confindustria sempre a lato, schiera uno yesman, Rosario Crocetta, il quale si fa commissariare volentieri, lasciando la designazione dell’Assessorato all’Economia a Roma, così come tutti gli accordi che ne sarebbero seguiti. Da quel momento fu la notte.

In verità, dietro l’aggressione finanziaria alla Sicilia, c’era ben altro oltre il solito colonialismo interno vecchio di decenni o di secoli. C’era ben altro oltre il solito nordismo odioso che aveva cominciato a dettare legge da più di vent’anni. L’origine della devastazione economica, sociale, demografica, che da allora investe la Sicilia, va cercata ad un livello sovranazionale.

Nel 2009, infatti, con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2011, l’Italia cessa di essere un paese finanziariamente indipendente. La Costituzione è modificata (2011), inserendo il “pareggio in bilancio”. Il “semestre europeo” ora sposta il luogo delle decisioni finanziarie dal Parlamento italiano alla Commissione europea. Nel 2011, vista qualche resistenza italiana al commissariamento, il noto golpe, con cui Berlusconi è destituito, e sostituito con un governo commissariale europeo.

Si badi bene, da allora qualche vota si è votato. Ma tutti, tutti, tutti i governi e partiti che si sono succeduti, hanno semplicemente eseguito, senza più alcun barlume di autonomia, gli ordini provenienti da Francoforte e Bruxelles. Chi in modo “entusiasta” come le “sinistre”, chi in modo ipocrita e contraddittorio come le “destre”, chi con la faccia da c…. come i gate-keeper del Movimento 5 Stelle,  ma tutti allo stesso modo. Non si esagera se si dice che dal 2011 l’Italia non è più un paese indipendente. Per ben due volte, alla classe politica locale, la tecnocrazia europea sostituisce addirittura un funzionario diretto, prima Monti, poi Draghi, cui viene delegato il lavoro più sporco, i provvedimenti più impopolari. Nel fratttempo, alla fine di questo periodo (2020-22) il grande reset socio-economico del Covid.

La storia siciliana, dal 2012 in poi, non si capisce se non si tiene conto di questi fattori di contesto internazionale. L’eliminazione politica di Lombardo (ma sto cominciando ad avere qualche sospetto persino su quella di Cuffaro di 4 anni prima, viste poi le sentenze costituzionali seguite) s’inserisce in questa tendenza generalizzata alla sostituzione dei governi democraticamente eletti con le post-democrazie europeiste.

La Sicilia, come già la Grecia, diventa laboratorio di massacro sociale, questa volta però indiretto. Perché non è stata la “Trojka” ad uccidere la Sicilia, bensì lo Stato italiano per interposta persona. Curioso destino dei due paesi su cui la civiltà europea è germogliata (Grecia e Sicilia, quest’ultima nient’altro che la Grecia d’Occidente), forse casuale, forse per un inconfessato odio delle attuali élite per l’eredità classica da cui siamo nati.

L’Italia, commissariata, sostanzialmente fallita, non può tollerare più che qualcuno si ritagli anche solo uno spazio di sopravvivenza. Intendiamoci. Non è che l’Europa abbia detto all’Italia “Massacrate la Sicilia!”. All’Europa non interessa proprio nulla di questa faccenda. L’Europa ha massacrato l’Italia e basta. Sono state poi le strutture di governance interne dell’Italia, ormai saldamente fondate su un dualismo nordista sempre più feroce, che ha cercato di scaricare la batosta, finché possibile, sui più deboli, cioè sulle già colonizzate regioni del Mezzogiorno, e – tra queste – più che ogni altra la Sicilia, la cui Autonomia, imposta dagli Alleati nel 1944, è sempre stata sopportata a stento, anzi, diciamolo chiaro, ODIATA.

Ora che gli Alleati non ci sono più, che nessuno pensa più alla Sicilia, che questa non ha voce politica propria, è arrivato il momento di regolare i conti, e di farlo nel modo più vendicativo. L’Autonomismo di Lombardo, flaccido, incerto, per quanto sia, viene vissuto come un’insolenza intollerabile, da punire in modo esemplare.

Già nel 2009 è fatta una modifica alla legge elettorale europea, ponendo lo sbarramento nazionale al 4%, per togliere ogni rappresentanza in Europa ad un eventuale partito autonomista. Lombardo, colpevolmente, non esce dalla maggioranza, per esasperato tatticismo, e crede di farcela con un’ammucchiata con centristi, estrema destra e pensionati. Risultato: un fallimento. Con il 2 e qualcosa per cento è fuori dall’Europarlamento… Ma è dopo di lui che la “vendetta” italica, dettata anche dal fatto che le finanze italiane nel frattempo sono in braghe di tela, si può scatenare.

Intanto, dal 2013, per effetto del Fiscal Compact (che lo Stato non sarebbe mai stato capace di rispettare), si introducono prelievi arbitrari su tutte le regioni ed enti locali: il famigerato “contributo al risanamento della finanza pubblica erariale”. In questo la Sicilia è – chissà perché – chiamata a contribuire con il contributo più alto in valore assoluto d’Italia, secondo solo alla Lombardia, ma che, rapportato pro capite, non solo è il più alto, ma corrisponde a circa il quadruplo di quello riservato a tutte le altre regioni d’Italia. Così, tanto per cominciare.

Nasce un contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni. Arriva puntuale una sentenza, la n. 19 del 2015, che introduce, per le autonomie speciali, l’istituto dell’Accordo. Ecco, da un punto di vista legislativo, gli “accordi” di Crocetta nascono da questa base giuridica. Naturalmente la sentenza della Corte è adornata di “tante belle parole”. L’accordo va declinato “nella forma della leale collaborazione” (si è visto). Gli accordi dovrebbero tenere conto “della dimensione della finanza pubblica delle predette regioni, delle funzioni da esse effettivamente esercitata” (e quindi lo Stato dovrebbe chiedere di meno a chi non riceve che poche funzioni dallo Stato), “anche in considerazione degli svantaggi strutturali permanenti, ove ricorrano, dei costi dell’insularità e dei livelli di reddito pro capite che caratterizzano i rispettivi territori o parte di essi”. Parole al vento. La Sicilia si è vista trattare peggio di tutti, per odio o vendetta, non so, ma le parole della Corte restano lettera morta su questo punto.

Non c’è dubbio che questa legittimazione generica di un prelievo erariale deciso solo formalmente insieme rendeva vano tutto l’impianto costituzionale. Finanche la riserva di imposte allo Stato, già prevista nel 1965 come si è visto, che aveva avuto sinora una funzione formalmente eccezionale (e di cui comunque lo Stato aveva ampiamente abusato), ora era superata da un ulteriore prelievo, tanto strutturale quanto arbitrario nella misura. La Sicilia è alla mercé di qualunque istinto di rapina da parte dello Stato centrale, e nessuna norma costituzionale ormai, di fronte a questa sentenza, sembra poterla proteggere. La parte “buona” della sentenza, come si è visto, è ignorata; la parte “brutta” dà copertura alla rapina, copertura di cui lo Stato si avvale  ora senza indugio. Dalla tutela costituzionale si stava passando così alla tutela politica: una regione forte, come il Friuli-Venezia Giulia, poteva lucrare accordi più vantaggiosi. La Sicilia, indifesa, poteva solo chiedere dove doveva firmare. Questa la realtà, tragica, aperta da quegli anni, e non ancora conclusa.

La logica degli “accordi” ha avuto un altro effetto perverso: lo snaturamento della Commissione Paritetica, per la seconda volta.

La Commissione Paritetica, infatti, era stata pensata ed era nata come un organo strutturalmente provvisorio. Essa avrebbe dovuto disciplinare il passaggio di tutta la macchina amministrativa statale alla Regione, nonché dettare quelle norme derivate dallo Statuto, minime aggiungo, perché questa potesse funzionare. Cessata questa funzione, doveva cessare anche la stessa. Da quel momento l’attuazione dello Statuto sarebbe dovuta avvenire solo per mezzo di leggi regionali. Nessuno avrebbe vietato di costituire “altre” commissioni paritetiche, informali, su specifici problemi, ma prive di rilievo costituzionale.

Nel fatto, già nel Dopoguerra, il suo ruolo era stato snaturato. Si è proposta una lettura “permanente” della Commissione Paritetica. Cioè si era creato un incredibile principio che avrebbe paralizzato l’attuazione dello Statuto, che possiamo così riassumere: tutte le norme costituzionali si applicano per mezzo delle leggi ordinarie, ma quelle dello Statuto siciliano NO! Nessuna norma statutaria è applicabile se prima non c’è un decreto attuativo (scusa per non far attuare nulla o dilazionare sine die). Non solo. Ogni volta che una legge dello Stato interviene a modificare una norma su cui in Commissione si è raggiunto un accordo, allora ci vuole un decreto “nuovo”, e quindi la Commissione, senza che nessuno lo abbia mai deciso, è diventata un organo permanente.

Con tutti questi difetti, però, la Commissione funzionava e si occupava, più o meno malamente, di dare attuazione allo Statuto su questioni formali e istituzionali. Investendo ora la Commissione di tutte le funzioni previste dalla Legge 42 del 2009, sul federalismo fiscale, la Commissione è degradata a dare norme di attuazione finanziaria specifiche, con “numeri” di volta in volta cangianti, come un qualunque ufficio finanziario subalterno. Un organo di rilievo costituzionale ridotto a ufficio di registrazione degli accordi finanziari tra Stato e Regione, quasi delle singole finanziarie.

Ma c’è di più. Anche in queste funzioni la Commissione, la cui reale e sostanziale funzione è ormai solo quella di impedire l’attuazione diretta delle previsioni statutarie, è del tutto svuotata. A monte delle riunioni della CP, infatti, ci sono accordi (accordi si fa per dire) tra Governo dello Stato e della Regione, cioè diktat. Questi “accordi” sono trasmessi alla Commissione Paritetica, la quale si limita a fare delibere di “presa d’atto” e a registrarle trasformandole in un articolato di legge.

E poi? Poi vanno alla firma del Capo dello Stato per diventare leggi dello Stato? No! Questo accadeva con i primi decreti attuativi, realmente decisi in Commissione Paritetica, e poi tradotti in DPR. No. Questi “disegni di decreto attuativo”, che la Commissione non ha neanche elaborato, vengono trasmessi, così come sono, al Consiglio dei Ministri che li trasforma in Decreti Legislativi e li pone alla firma del Capo dello Stato. Si dirà “e che cambia”? Cambia moltissimo. La CP era, appunto, paritetica: due rappresentanti dello Stato e due della Regione. Nel momento in cui il decreto va in Cdm l’organo che li approva non è più paritetico. Certo, per dileggiarlo, in questi casi viene invitato il Presidente della Regione, “con il rango di Ministro” (poropon pon pon). Ma il povero Presidente-Ministro, in quella sede, si vede una tavola apparecchiata nella quale il suo voto contrario a nulla comunque servirebbe. E comunque, tranquilli, Crocetta, Musumeci e Schifani non si sono mai neanche sognati di votare contro… Anche quando la Sicilia veniva massacrata, anche solo per lasciare un segno di volontà contraria. E poi, scusate, a me hanno insegnato che il D. Lgs. o decreto delegato nasce da una legge-delega. I decreti attuativi dello Statuto sono invece decreti delegati senza legge delega, ma lasciamo perdere…

Veniamo ora agli accordi concretamente stipulati, prima e dopo la sentenza citata.

Il primo “accordo” è del giugno 2014.

Lasciamo perdere gli aspetti secondari. Ma c’è un punto nodale importante da premettere: il “Patto di stabilità interno”. Che cos’è? È o era (ne sento parlare meno di questi tempi) una legge assurda per la quale regioni e comuni si impegnavano ad un tetto di spesa. Cioè, mi spiego meglio. ANCHE SE AVEVANO I SOLDI NON POTEVANO SPENDERLI OLTRE QUEL TETTO! Non chiedetemi una ragione di questa deliberata costruzione di inutili avanzi finanziari, perché non ce n’è. Chiedere a Draghi o a Bruxelles, io mi rifiuto di capire. Ora, nell’accordo di specie, si autorizzava la Regione a spendere (DEI PROPRI SOLDI) qualche centinaio di milioni di euro, si limava, appena appena, il vessatorio contributo per il risanamento della finanza pubblica, sempre il più alto d’Italia. E in cambio di questa incredibile generosità? La Regione SI IMPEGNAVA A RITIRARE TUTTI I RICORSI CONTRO LO STATO PROMOSSI IN MATERIA PRIMA DELL’ACCORDO E A RINUNCIARE PER GLI ANNI 2014-17 AGLI EFFETTI POSITIVI CHE SAREBBERO DOVUTI DERIVARE DA EVENTUALI PRONUNCE DI ACCOGLIMENTO.

A mio avviso questo primo accordo, già, grida vendetta al cospetto di Dio. La Sicilia cede al ricatto dello Stato: ti spettano per Statuto certe risorse? te le ho rubate? ti sei rivolta alla Consulta per avere giustizia? con tutto che la Corte Costituzionale è sbilanciata a mio favore, l’abbiamo fatta talmente sporca che non potranno fare a meno di darti ragione? Bene! Allora prima ti strangolo con il Contributo al risanamento (che la Corte dice posso mettere al livello che voglio) e con il Patto di Stabilità (idem), e poi, se vuoi che allento poco poco il nodo scorsoio del cappio, e se vuoi chiudere i bilanci, tu devi rinunciare a tutte le risorse che ti spettano per giustizia costituzionale.

E con la Regione, a quelle risorse, stimate in circa 5 miliardi, abbiamo dovuto rinunciare sotto ricatto anche tutti noi siciliani incolpevoli. La Corte dei Conti non trovò nulla da ridire su quell’accordo. Che strano!

Di sfuggita, senza attendere il decreto attuativo, la Regione si impegnava ad applicare sic et simpliciter la riforma della contabilità pubblica, abrogando la propria legge del 1977, e rinunciando all’autonomia legislativa in materia di contabilità di stato; autonomia che aveva sempre pacificamente avuto dal 1946.

(Segue)

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