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La Sicilia dalla catastrofe del 1816 all’annessione all’Italia

Torniamo ancora più indietro, alle origini della attuale Questione Siciliana: la Sicilia come luogotenenza delle Due Sicilie. La catastrofe del 1816, le continue e disperate rivolte e rivoluzioni, fino alla soluzione “italiana”..

Capitolo 1: La Sicilia nel Regno delle Due Sicilie

 

  • 1 – La Sicilia degradata da Regno a Luogotenenza “al di là del Faro”

Il Regno delle Due Sicilie, da un punto di vista amministrativo era un regno dualistico. Aveva cioè un’unica corona, e rappresentanza estera, uniche leggi, ma tutta l’amministrazione e la giustizia era duplicata “al di qua” e “al di là” del Faro. Probabilmente questo stato era provvisorio, nell’attesa di una più stretta unità voluta dai suoi vertici; unità che non ebbero mai il tempo di realizzare.

Era anche un po’ più piccolo dell’Unione di Napoli e Sicilia del Settecento, avendo perso lo staterello dei Presìdi in Toscana, integrato ora nel Granducato di Toscana, e le Isole Maltesi, cedute alla Gran Bretagna.

Su queste dobbiamo interrompere quindi la trattazione unitaria con la storia siciliana che abbiamo condotto sin dalla Preistoria. Diciamo solo che il possedimento inglese mantenne a lungo lingua e ordinamenti burocratici siciliani/italiani, per essere anglicizzato solo molto lentamente. Ancora dopo il Congresso di Vienna, il Re delle Due Sicilie tentò una volta di far valere i propri diritti sulla Chiesa maltese, per effetto dell’Apostolica Legazìa, con il pretesto che la cessione delle Isole non includeva l’abdicazione del Re di Sicilia (ormai “delle Due Sicilie”) ai diritti ecclesiastici sull’arcipelago. La Gran Bretagna naturalmente ricusò il diritto e da allora non se ne parlò più. Anche una certa integrazione tra il sistema postale siciliano e maltese tardò molto a recidersi. Lo sviluppo della lingua maltese, come lingua nazionale, già dialetto sopravvissuto del siculo-arabo, fu favorito dalla dominazione inglese in chiave antiitaliana, e finì per soppiantare del tutto l’italiano come lingua ufficiale, dopo una progressiva ritirata di questa dall’amministrazione e dalla scuola, ma ufficialmente soltanto nel 1936 per ritorsione contro il Fascismo (un po’ come con la Corsica aveva fatto Napoleone III nel 1859, dopo l’annessione al Piemonte della Lombardia). In quel momento, e da lungo tempo infatti, il “Partito Nazionalista” maltese era un partito sostanzialmente irredentista italiano. I legami storici della Sicilia si erano – per così dire – traslati all’Italia, con la quale in verità Malta non aveva mai avuto grandi rapporti diretti. È pur vero che dal 1530 i Cavalieri avevano fatto rapidamente scomparire il siciliano dagli atti ufficiali a favore dell’italiano, anche nei rapporti con la corte viceregia. E quindi il filo-italianismo dei nazionalisti era visto in chiave anticoloniale. Il Fascismo non fece che esasperare questi rapporti e quindi ebbe per reazione inglese l’unico effetto dell’anglicizzazione definitiva dell’arcipelago. Ottenuta una prima forma di autogoverno dopo la I Guerra Mondiale, Malta si sarebbe aperta al multipartitismo. Dopo la II Guerra mondiale il Partito Nazionalista si trasformò da irredentista in indipendentista. Il partito laburista invece era per un’integrazione più stretta con la Gran Bretagna. Il rifiuto dei Britannici nel concedere cittadinanza, diritti e finanziamenti alla piccola colonia ex-siciliana, determinò la volontà compatta di tutte le forze politiche verso l’indipendenza. Così nel 1964 Malta divenne indipendente, come monarchia nell’ambito del Commonwealth, nel 1974 divenne una repubblica, per poi conoscere una prodigiosa crescita economica, ed entrare infine nell’UE (2004) e nell’eurozona (2008). Ma questa storia è ormai la storia di una vera e propria Nazione a sé, simile, vicina e naturalmente amica della Sicilia, da cui è gemmata, ma ormai in tutto e per tutto una storia propria, e quindi al di fuori del nostro oggetto.

Tornando al Regno delle Due Sicilie e alle conseguenze del Congresso di Vienna, dopo qualche tempo anche Francesco Borbone abbandonò la Sicilia e questa fu governata per mezzo della Luogotenenza, erede istituzionale dei vecchi viceregni, ma senza più alcuna autonomia. I luogotenenti erano funzionari degli interni, essenzialmente poliziotti, non certo esponenti della casa reale. A Napoli sedeva un Ministro per gli affari siciliani con cui corrispondeva il Luogotenente siciliano. La Luogotenenza rilevava l’antica Segreteria viceregia e veniva riorganizzata in alcune ripartizioni, in cui, tra le funzioni “nuove”, osserviamo la “terza”, dedicata ai lavori pubblici, istruzione pubblica, agricoltura e commercio, salute pubblica, mentre le altre due erano dedicate alle funzioni più tradizionali di giustizia, e di finanze ed ecclesiastico.

Dall’Unione in poi non furono più coniate monete siciliane, ma l’onza continuò ad avere corso legale e i conti continuarono ad essere segnati in onze e tarì per molti anni, prima che i ducati duosiciliani ne prendessero il posto, nonostante una legge del 1818 ne avesse reso obbligatorio l’uso.

Le autonomie municipali furono sciolte e i Comuni affidati a funzionari di polizia nominati dal governo borbonico. Anche i distretti furono sciolti, accorpati in sette Intendenze, cioè Prefetture, che accentravano tutti i poteri, sul modello francese, già sperimentato da Murat nel Regno di Napoli: Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Trapani, Girgenti e Caltanissetta. I distretti furono declassati a circondari, con funzionari di secondo livello. I tentativi di estendere l’obbligo di leva alla Sicilia fallirono per la generalizzata renitenza dei Siciliani. Il sistema di imposte fu completamente cambiato e aggravato, rimanendo tuttavia relativamente moderato.

L’unica cosa che fu mantenuta della Rivoluzione del 1812 fu l’abolizione dei diritti feudali che non furono restaurati. Anzi, ma era nello spirito dei tempi, alcuni ultimi residui furono aboliti negli anni seguenti con un contenzioso che ne seguì e che sarebbe durato decenni, fin oltre l’Unità d’Italia, soprattutto per quel che riguardava l’appropriazione dei “diritti promiscui” (cioè gli usi civici su alcuni terreni o le terre “demaniali”, cioè dei comuni, di cui aristocratici e borghesi si erano di fatto impadroniti).

Il governo borbonico, nell’abolire ogni libertà di pensiero non tornò all’Antico Regime, ma sottopose la società siciliana alla cappa di una ben più severa censura. Il nuovo regime fondamentalmente impedì la naturale evoluzione della società siciliana da feudale a moderna, decapitando lo stato e la società siciliane in un colpo solo. Il regime poliziesco che fu insediato non riuscì a coprire il vuoto che ne derivò. La società siciliana, soprattutto nelle campagne, prese a organizzarsi con un ordine parallelo, e illegale, rispetto a quello ufficiale, anche se allo stato si sa ben poco di questo mondo misterioso che andava covando nella Sicilia del primo XIX secolo.

L’opposizione politica non aveva alcuna voce legittima con la quale farsi sentire. Per fare “opposizione” ora non restavano che le società segrete e la cospirazione. La massoneria era indifferente alle vicende politiche siciliane, al pari della diplomazia britannica, che aveva voltato le spalle alla Sicilia, e poi il suo carattere illuministico ed elitario, più o meno esplicitamente anticristiano, mal si adattava allo spirito dell’Isola. Più fortuna, specie tra i ceti medi, ebbe per questo la Carboneria, venuta dall’Italia, meno antireligiosa e più animata da spirito espressamente politico. I carbonari siciliani avevano aspirazioni politiche vaghe e contraddittorie, di tipo liberale, e più o meno indipendentiste o autonomiste.

Nel frattempo a poco a poco tutte le istituzioni del Regno di Sicilia venivano smantellate e sostituite da cloni di analoghi istituti napoletani. Con il 1819 – piace notarlo seppure come curiosità – l’anno amministrativo e contabile diventava quello solare, abbandonando quello indizionale che datava dai tempi dell’imperatore romano Diocleziano. Naturalmente l’ultimo anno indizionale fu una frazione di anno (1 settembre – 31 dicembre 1818).

La Sicilia diventava in tutto e per tutto una “conquista postuma di Napoleone”; dove non erano arrivate le armi dei francesi arrivarono le riforme borboniche copiate da quelle napoleoniche. I codici ferdinandei, insieme all’anagrafe, entravano l’1 gennaio 1820. In quel momento non si stava solo pensionando il Corpus Juris di Giustiniano ma di colpo tutte le Costituzioni, Capitoli, Prammatiche, Giurisprudenza del Regno – che si erano stratificate per secoli – erano abrogate con un tratto di penna. Di un ordinamento sovrano rimanevano poche tracce qua e là, come il vuoto titolo di “Pretore” per il sindaco di Palermo, funzionario governativo come tutti gli altri del resto, o i “Senati” di Palermo, Messina e Catania, anch’essi nominati dai “poliziotti” napoletani. Veri relitti di un naufragio politico e istituzionale che non ebbe pari nella storia siciliana. Insieme a questo “naufragio”, però, arrivarono in Sicilia anche istituti che già l’Italia aveva importato dalla Francia. Tra questi, ad esempio, le Camere di Commercio: Messina nel 1818, Palermo nel 1819, Catania soltanto nel 1852, queste le uniche pre-unitarie, prima che una legge italiana del 1862 le istituisse per ogni provincia.

Negli anni ’20 sono abolite le dogane tra Napoli e Sicilia, ma attraverso i dazi comunali Napoli favorisce l’industria continentale, relegando l’economia siciliana a fornitrice di materie prime, quali il grano e lo zolfo, questo sempre più importante nell’economia siciliana. L’industria siciliana era colpita anche dalle commesse statali, riservate esclusivamente al Napoletano.

  • 2 – La Rivoluzione indipendentista del 1820 e le successive repressioni e congiure

La Rivoluzione carbonara di Napoli del 1820, con la quale i liberali napoletani richiedevano per le Due Sicilie la Costituzione spagnola liberale di Cadice del 1812, fu un’occasione anche per la Sicilia. Mentre a Messina semplicemente fu annunziata la Costituzione, quando la notizia arrivò a Palermo, nel giorno di S. Rosalia, si chiese l’indipendenza e la Costituzione del 1812, almeno da parte del partito dei “cronici”. Gli “anticronici” (cioè ora i democratici) si sarebbero forse accontentati della costituzione spagnola proclamata a Napoli, ma erano ancor più rigorosi sull’indipendenza da Napoli. Il luogotenente Naselli non gestì bene la vicenda e, dopo che la truppa mercenaria tentò di sparare sul popolo, una ribellione lo cacciò, e si costituì un Governo provvisorio (“Suprema Giunta Provvisoria”), diretto dopo qualche giorno dal principe di Villafranca, che già era stato tra i nobili confinati nel 1812, fatto da cui era scaturita quella riforma parlamentare, e già protagonista di quella stagione politica. I rivoltosi, se fosse stato concesso di mantenere lo Stato di Sicilia con la Costituzione del 1812, sarebbero anche stati disposti a negoziare alcune cessioni di sovranità a Napoli. Ma la risposta dei liberali napoletani fu negativa. I carbonari messinesi, in chiave anti-palermitana, sconfessarono questa richiesta e si dichiararono fedeli a Napoli, dividendo il fronte nazionale.

Le “intendenze”, infatti, avevano gratificato 6 città dell’Isola, con una serie di impieghi pubblici prima inesistenti, e quindi questo le aveva legate al nuovo regime. Fu così che solo Girgenti (Agrigento) e a fatica seguì Palermo, mentre gli altri capoluoghi si mantennero fedeli a Napoli. Ma non così gli altri Comuni, che in stragrande maggioranza si ribellarono e aderirono alla Rivoluzione. In pochi giorni quasi tutta la Sicilia, fino alle porte dei nuovi “capoluoghi”, riconosceva il governo provvisorio. La Giunta rivoluzionaria fu ampliata ai rappresentanti delle città in rivolta costituendo quasi un nuovo parlamento rivoluzionario di 77 componenti.

Questa decise di “conquistare” le città ribelli con la forza, dando vita ad una guerra civile, quando ancora Napoli non era in grado di reagire. La guerra fratricida determinò la sanguinosa conquista di Caltanissetta e la sua umiliazione da parte delle truppe palermitane, che arrivarono a isolare la costa ionica da un lato e Trapani dall’altro e a controllare praticamente tutto il resto della Sicilia. In una petizione al governo liberale napoletano, al voto per l’indipendenza aderirono più di due terzi di tutti i comuni siciliani.

La reazione borbonica, anche sotto il governo liberale, partì da Messina, poi faticosamente deviò verso il Val di Noto risalendo poi verso Palermo. Vedendo che la resistenza siciliana era molto dura, il generale Florestano Pepe negoziò con il principe di Villafranca una convenzione che avrebbe posto fine alle ostilità: «la maggioranza dei voti dei siciliani, legalmente convocati, deciderà dell’unità o della separazione della rappresentativa nazionale del Regno delle Due Sicilie» e «La Costituzione di Spagna del 1812, confermata da Sua Maestà Cattolica nel 1820, è riconosciuta in Sicilia, salve le modificazioni che potrà adottare l’unico Parlamento, ovvero il Parlamento separato, per la pubblica felicità», «ogni comune eleggerà un deputato». Nonostante il compromesso, il popolino palermitano non accettò e costrinse lo stesso principe di Villafranca a fuggire (negli ultimi anni di vita si sarebbe ritirato a vita privata, dando vita al celebre vino “Corvo di Salaparuta”), gettando la città nel caos, mentre i napoletani non riuscivano comunque a prevalere. I ribelli palermitani, dopo 10 giorni di agitazioni, convinti dalla prudente guida dell’ottuagenario principe di Paternò, che aveva preso il posto del Villafranca nella Giunta ormai disarticolata, deposero le armi, pensando di aver quanto meno “pareggiato” con la conquista di una sorta di semi-indipendenza dal governo napoletano. Questo, però, quand’ebbe conosciuto le richieste dei Siciliani, le rigettò, sconfessando il Pepe, e facendo seguire una dura repressione ad opera del generale Colletta. Questi impose l’elezione dei deputati al parlamento costituzionale di Napoli. Nel 1821 fu sostituito dal Nunziante, sotto cui i deputati eletti di Palermo rassegnarono il mandato, dichiarandosi tutti in blocco indipendentisti. Inutili i tentativi concilianti dei deputati catanesi e messinesi di far passare a Napoli l’idea di una unità senza centralismo napoletano, perché nel frattempo anche la rivoluzione liberale di Napoli andava perduta. Ferdinando I (ormai questo era il numero, avendo perso il IV di Napoli e III di Sicilia), riporta l’ordine sulla punta delle baionette austriache, che arrivano fino in Sicilia. Il nuovo regno si rivela quindi nient’altro che un fantoccio di Vienna. La resistenza di Messina, tardiva, con il Rossarol, che era stata fedele al Governo di Napoli fino a quel momento, non avrebbe arrestato la repressione. Prima di passare alla reazione, Ferdinando aveva assistito alla Convenzione di Lubiana, nella quale le potenze della Santa Alleanza, forse più rispettose di lui dell’Autonomia siciliana, dedicarono alla Sicilia uno specifico protocollo in cui gli imponevano, al fine di evitare futuri disordini nell’Isola, “di separare l’amministrazione di Napoli da quella della Sicilia, conservando attentamente tutti i legami che li uniscono in uno stesso scettro”. Nel successivo incontro di Verona questa separazione tra Napoli e Sicilia, odiata a corte, venne un po’ moderata ma Metternich insistette, con grande lungimiranza politica, sul rispetto del protocollo di Lubiana.

E così il nuovo ordinamento si consolida, replicando in Sicilia gli stessi ordinamenti di Napoli, seppure con numeri di funzionari e compiti ridotti. Viene costituita la Consulta dei “Reali domini al di là del Faro” (lunga perifrasi per intendere la Sicilia, termine a quanto pare innominabile), composta da 8 membri, che – unitamente ai 16 “al di qua del Faro” – costituivano la Consulta generale del Regno delle Due Sicilie, con funzioni giuridico-consultive. Per comprendere quali fossero le principali funzioni del Governo della Luogotenenza è interessante notare che questa Consulta si divideva in due sezioni: una si occupava di interni e finanze, l’altra di grazia, giustizia ed ecclesiastico (la Sicilia sola era ancora soggetta all’antica Apostolica Legazìa), mentre una Commissione mista napoletano-siciliana (4 napoletani e 2 siciliani) si occupava di guerra, marina ed esteri. Tuttavia questa Consulta, sebbene competente per la Sicilia, sedeva a Napoli, da dove mandava i propri pareri (o ordini?) a Palermo. La Luogotenenza, riordinata, è divisa in tre dipartimenti, ciascuno sotto un direttore generale: interno, giustizia e finanze. Il Ministero a Napoli per gli Affari di Sicilia venne soppresso, le sue funzioni nominalmente ripartite tra i Ministeri competenti, in pratica tutti ampiamente decentrati alla Luogotenenza. Se è vero che le due amministrazioni restavano separate è anche vero che le finanze siciliane erano gravate di un quarto delle spese comuni: guerra, marina, diplomazia e “lista civile” (cioè le spese di corte). Pur essendo solo queste le voci comuni, tuttavia esse assorbivano circa il 40 % di tutte le entrate tributarie siciliane, con un peso insostenibile e un apporto a infrastrutture e servizi pubblici trascurabile rispetto alle esigenze dei tempi. Si può solo concludere che l’unico risultato permanente della Rivoluzione del 1820 fu il mantenimento, al di fuori della diplomazia e delle forze armate, di un decentramento amministrativo totale di tipo confederale, sebbene per nulla rispondente alle esigenze dell’Isola in quanto tutto espressione di funzionari nominati da Napoli, al di fuori della magistratura propriamente detta, teoricamente, ma solo teoricamente, indipendente.

Seguono quindi mille complotti e congiure indipendentiste di cui sarebbe difficile tenere il conto. La storiografia italiana ha voluto mimetizzare questa Sicilia destabilizzata come parte del “Risorgimento italiano”. Nulla di più falso. La Sicilia degli anni ’20 è sempre e solo una Sicilia indipendentista. Anche la morte del vecchio Ferdinando (1825), e la successione di Francesco I, ormai vecchio e malandato anche lui, non fanno cambiare di una virgola le politiche reazionarie, di cui è simbolo di quest’epoca il marchese delle Favare. Anzi, a poco a poco, le funzioni vitali della pubblica amministrazione sono sfilate dalla competenza del governo della Luogotenenza e affidate direttamente ai ministeri napoletani, lasciando alla Luogotenenza un ruolo di semplice coordinamento. Un’ulteriore rivolta, nel 1830, è sventata sul nascere e seguono le immancabili repressioni.

  • 3 – Il breve idillio con il Luogotenente Leopoldo di Borbone e la successiva nuova repressione

Poco prima di questa rivolta era morto anche Francesco I e gli era successo il giovane Ferdinando II, nato a Palermo ai tempi dell’esilio in epoca napoleonica. Ferdinando II comprende che è ora di innovare lo stile della monarchia. Tra gli altri provvedimenti, in Sicilia è inviato come luogotenente il fratello Leopoldo, Conte di Augusta.

La Sicilia tornava ad avere come Luogotenente un esponente della famiglia reale, un vero vicario. E Leopoldo fece di tutto per riconciliare i Siciliani alla nuova monarchia. Primissimo provvedimento fu quello di riaprire una Commissione consultiva nell’Isola (visto che la Consulta risiedeva a Napoli). Seguirono altri provvedimenti e riforme utili per la Sicilia. Intraprese un processo di opere pubbliche, in particolare di sistemazione della vetusta rete stradale. Nel 1831, a metà circa tra la costa siciliana e Pantelleria, in quel basso fondale che oggi si chiama il “Mammellone” apparve un’isola, contesa tra le principali potenze navali dell’epoca (Francia e Regno Unito). Le Due Sicilie ne rivendicarono la sovranità, come pertinenza della Sicilia, e l’isola ebbe il nome di Ferdinandea, ma presto fu nuovamente sommersa. Tra gli altri provvedimenti l’apertura della Direzione Generale di Statistica, nel 1832, fiore all’occhiello della tradizione ormai secolare della Sicilia in questo settore. Tentò persino di riaprire la zecca di Palermo, con la coniazione di alcuni spiccioli (i “grani siciliani”, del valore della metà rispetto alle analoghe monete napoletane), ma l’esperimento dové subito essere interrotto con il ritiro della moneta. Leopoldo fu coadiuvato da un vero Ministro Segretario di Stato, quasi la Sicilia fosse diventata uno Stato federato vero e proprio. A Napoli Leopoldo ottenne che si ricostituisse il Ministero per gli Affari di Sicilia, affinché avesse un unico interlocutore con la capitale.

Ma l’idillio tra i Borbone e la Sicilia non durò più di un lustro. Timoroso che Leopoldo potesse farsi proclamare Re di Sicilia, geloso del troppo affetto che i Siciliani gli riservavano, accertati i rapporti tra Leopoldo e l’ambasciata francese, lo fece ritirare a Napoli, riprendendo così la serie dei Luogotenenti poliziotti. Tra i due fratelli sarebbe stato gelo. Leopoldo, quasi prigioniero a casa sua, dovette dedicarsi alla pittura, e, all’Unità d’Italia (1860), avrebbe prontamente giurato fedeltà ai nuovi venuti. La Commissione Consultiva di Sicilia sarebbe sopravvissuta comunque, fino alla Rivoluzione del 1848.

La politica dell’accentramento ottuso riprese imperterrita. Persino l’ufficio del protomedico fu soppresso e la sanità centralizzata a Napoli, proprio quando un’epidemia di colera (1836) avrebbe richiesto una maggiore presenza sul territorio.

Il fuoco della rivolta, sedato a Palermo, riprese in altre parti dell’Isola. Nel 1837 fu la volta di Siracusa e Catania. Ancora una volta i drappi gialli e le aquile fridericiane, simbolo del nazionalismo isolano, fecero la propria comparsa. La reazione fu violenta, come sempre, questa volta ad opera del generale Del Carretto. Le Due Sicilie riuscirono in un compito storico: far superare il municipalismo storico della Sicilia, inimicandosi tutti. A seguito della repressione, la stessa Luogotenenza, dal 1838, fu resa una carica poco più che simbolica, e tutta l’amministrazione fu accentrata a Napoli. Il Ministero siciliano, e il Ministero a Napoli per gli affari di Sicilia nuovamente sciolti. L’alienazione tra Napoli e Sicilia si fece totale e generalizzata, estesa a tutte le città e tutte le classi. A nulla servì un viaggio di Ferdinando II in Sicilia e nemmeno la riapertura dell’Università di Messina (1838). Si moltiplicavano le stampe clandestine. La coscienza politica indipendentista era ormai generalizzata e crescente, seppure articolata in diverse correnti e partiti. Fu introdotta la legge sulla “promiscuità” ma questa, anziché unire il Regno, fu occasione di ulteriori divisioni e rancori: gli uffici napoletani erano aperti ai siciliani e viceversa, ma di fatto le posizioni di massimo potere erano riservate ai napoletani, lasciando i siciliani sempre in posizione subalterna. A partire dagli anni ’30, ma ancora in modo del tutto marginale, il movimento indipendentista siciliano prende contatto con alcuni esponenti dell’insurrezionismo italiano. Tra alcuni giovani comincia a serpeggiare qualche idea mazziniana e di appartenenza a una comunità “italica”. L’obiettivo generalizzato era però quello di disfarsi della polizia borbonica e riprendere per la propria strada. La memoria del Regno di Sicilia e della Costituzione del 1812 non era affatto spenta, e cercava soltanto un’occasione per poter tornare nell’agenda politica.

La Sicilia, però, sia pure senza grandi incoraggiamenti dal centro, lentamente si avviava a un processo di industrializzazione e modernizzazione. Segno ne è, fra l’altro, il faticoso avvio, tra il 1840 e il 1845, dell’attività della Borsa Valori di Palermo, la più antica e più vitale tra le borse siciliane.

Negli anni seguenti il Banco delle Due Sicilie aprì a Palermo e Messina due filiali (le Reali Casse di Corte), anche per sopperire alle esigenze di un sistema bancario moderno, cui non potevano essere più sufficienti i due vecchi banchi comunali di deposito cinquecenteschi, i cui titoli circolavano in modo troppo ristretto. Le due casse oggi si direbbero “società controllate”, per la relativa autonomia patrimoniale di cui godevano pur sotto il controllo di Napoli. Quella di Palermo fu creata nel 1843 e diventò presto un istituto di primaria importanza, fungendo anche da tesoreria del Governo della Luogotenenza; Messina aprì nel 1846 per semplice trasformazione della vecchia Tavola comunale, che fu totalmente assorbita, e restò legata più strettamente alle dipendenze da Napoli.

La fine del 1847 vide una rivolta, a carattere sociale, tra Messina e Reggio Calabria, soffocata con la forza come le altre. La Sicilia è una polveriera pronta ad esplodere e ad infiammare l’Europa intera.

  • 4 – 1848-49: L’ultimo bagliore del Regno di Sicilia

Ma fu il 1848 che portò la grande esplosione. Fu Palermo, il 12 gennaio, a dare il segno a tutta l’Europa, con una rivoluzione, che fu al contempo liberale e nazionale. Rivoluzione preannunciata da manifesti sottovalutati dal regime, che già da giorno 9 gridavano dai muri: «Siciliani, il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? Alle armi figli della Sicilia!». In quel grido c’era tutta la rabbia per le promesse tradite da un Continente infido e straccione, allora come oggi, che aveva sequestrato la Sicilia dal diritto ad avere una storia propria, una storia normale.

Il clima, però, era cambiato dalla precedente Costituzione. Erano passati più di 30 anni dall’annessione, e tutti i tentativi di restaurare il Regno erano stati frustrati dall’opposizione di uno stato meglio organizzato dei rivoltosi. I Siciliani, in gran parte, avevano deciso di far confluire la causa nazionale siciliana nella più ampia causa italiana. La Rivoluzione del ’48 fu così allo stesso tempo indipendentista e federale (italiana). La Sicilia abbandonò il giallo o il giallo-rosso della sua tradizione per adottare una bandiera tricolore italiana, con la secolare Trinacria al centro. Questa, da sempre simbolo non ufficiale dell’Isola, fu eretta a simbolo ufficiale mandando in pensione le aquile fridericiane che avevano accompagnato la storia del Regno sin dai tempi del Vespro, ma prima ancora, come aquila singola, dai tempi di Federico II. Durante i primi giorni di rivolta, quando il generale borbonico chiese ai rivoltosi cosa volessero dal re per deporre le armi, memorabile fu la risposta: «Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, e non sospenderà le ostilità, se non quando la Sicilia, riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà ai tempi quella sua Costituzione che, giurata dai suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a questa Isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile». L’esercito borbonico in fuga per vendetta incendiava villaggi e assassinava, non dimenticando di aprire prima le carceri per riempire il paese di malfattori e far così vacillare il fragile governo emerso dalla Rivoluzione.

La Rivoluzione fu un esempio di concordia: da Pantelleria a Messina, all’unisono, i “borbonici” furono dovunque cacciati rapidamente, quasi come in un nuovo Vespro. Solo nella imprendibile cittadella di Messina non si poteva entrare. La Sicilia era di nuovo indipendente, grazie al sangue dei suoi figli. Non ci furono differenze di ceto o classe: l’indipendentismo siciliano metteva d’accordo gli ecclesiastici, gli aristocratici, i borghesi, gli artigiani, i villani. Fu costituita una Guardia Nazionale, con uffici elettivi. Si costituì un Governo provvisorio, e fu affidato al vecchio contrammiraglio Ruggiero Settimo, che da giovane aveva avuto un ruolo nella Rivoluzione del 1812 e che aveva fatto parte della Giunta provvisoria del 1820.  Dapprima fu Presidente di questo Comitato provvisorio di governo, affidando a Mariano Stabile il ruolo di “Segretario Generale”, poi si costituì un governo regolare. Ruggiero Settimo fu così nominato “Presidente del Governo del Regno di Sicilia”, carica assonante con quella antica di “Presidente del Regno”, adottata nella vacanza dei Viceré. Sarebbe stato l’ultimo capo di stato – legittimo aggiungiamo noi – di una Sicilia indipendente. Come ai tempi della Costituzione del 1812, il Dicastero era guidato dal Ministro degli Esteri e del Commercio, con funzioni sostanziali di “Primo Ministro”, affidato a Mariano Stabile. Altri Ministeri istituiti furono: Ministero della Guerra e Marina, Ministero delle Finanze (inizialmente affidato a Michele Amari), Ministero del Culto e della Giustizia, Ministero dell’Interno e della Sicurezza Pubblica, Ministero dell’Istruzione pubblica dei lavori pubblici. Cacciato il governo usurpatore si cercò di ripristinare, come si poté, la legalità del Regno di Sicilia, a partire dalla soppressione delle odiate intendenze provinciali, e la ricostituzione dei Distretti del Regno di Sicilia. Tutti i Comuni (anzi “le Comuni” come si diceva allora) parteciparono a questa ritrovata libertà ed autonomia municipale, conquistata in pochissimo tempo e nella concordia generale.

Ruggiero Settimo tentò di far riconoscere il Regno di Sicilia sul piano internazionale ma non ce ne fu il tempo. Francia e Gran Bretagna accettarono di fatto, ma non di diritto, gli emissari della Sicilia, e la Gran Bretagna liberale mandò la flotta a proteggere la Sicilia dagli assalti napoletani.

Fu riportata in vigore la Costituzione del 1812, e con questa, furono ricostituite le legittime Camera dei Comuni e Camera dei Pari, secondo quella che era l’unica legittima costituzione vigente di 36 anni prima. Le proposte di blandissima autonomia che ora arrivarono da Napoli, in realtà insignificanti ed insidiose, furono invece rigettate, in quanto se non altro tardive: queste consistevano nell’abolizione della “promiscuità”, nell’ampliamento delle competenze della Consulta per la Sicilia, nella nomina di un luogotenente di famiglia reale, nella modifica della legge sulla censura. Napoli, dopo l’insurrezione siciliana, era stata travolta da un moto liberale e il governo era stato costretto a concedere la Costituzione. Ma i liberali napoletani erano stretti alla Corona nel disegno di riconquistare l’isola ribelle. L’esempio siciliano avrebbe infiammato l’Italia, nella quale Toscana, Stato della Chiesa e Regno di Sardegna avrebbero concesso costituzioni, mentre nelle regioni controllate direttamente o indirettamente dall’Austria sarebbero scoppiate rivolte e questi sarebbero stati cacciati (all’infuori del cd. Quadrilatero), con la costituzione di governi provvisori e la ricostituzione della Repubblica Veneta. A luglio la Rivoluzione sarebbe arrivata a Parigi e avrebbe infiammato l’Europa intera.

Il Governo siciliano, però, fu sin troppo parlamentare, democratico e liberale, in un momento rivoluzionario che avrebbe richiesto un’energica dittatura. Sia sul piano dell’organizzazione delle forze armate, sia su quello della polizia interna, non ci fu in quel momento uno statista all’altezza della drammatica situazione. Ad ogni modo furono presi alcuni importanti provvedimenti d’urgenza, e impedita la riconquista, sebbene non si comprese che bisognava espugnare la Cittadella di Messina per garantire sicurezza all’intero Regno.

Si tentò di arrivare ad una mediazione attraverso gli Inglesi. Lord Minto fece quasi un miracolo, nel momento di massima debolezza di Ferdinando II, facendo approvare dei decreti che erano la vittoria per la Sicilia: questi accettava che la Sicilia convocasse un Parlamento separato da Napoli, che questo Parlamento avrebbe adattato ai tempi la Costituzione del 1812, si sarebbe ricostituito il Ministero per gli Affari Siciliani a Napoli, si sarebbe riconosciuto come legittimo il governo rivoluzionario e Ruggiero Settimo come Luogotenente. L’unica cosa su cui il Borbone non “mollava” era che il regno dualistico sarebbe rimasto unito della sua corona e che l’esercito napoletano sarebbe dovuto tornare nell’Isola. In caso di dissenso tra i due parlamenti (di Napoli e Palermo) sulla sistemazione definitiva del Regno, si sarebbe proceduto ad un arbitrato internazionale. I successi di quel momento della Sicilia, o la giusta diffidenza verso una dinastia troppe volte spergiura, consigliarono ai Siciliani di ripudiare questi decreti (che forse sarebbero stati la vittoria definitiva della Rivoluzione), rilanciando con un’offerta praticamente inaccettabile per la controparte: due stati separati, solo unione personale, con invio di un “Viceré” dotato di tutti i poteri del re, cessione di un quarto dell’esercito e della flotta. In fondo, da un punto di vista legittimo, i Siciliani non chiedevano altro che una piena scissione tra i due regni, per ripristinare una situazione simile a quella del secolo precedente. Ma, dal punto di vista della corte napoletana, significava trasformare la Sicilia in un “commonwealth” simile a quello che più tardi l’Inghilterra avrebbe sperimentato con il Canada e altri possedimenti. Seguì, inevitabile un ultimatum da parte di re Ferdinando, e, in risposta a questo, il Parlamento dichiarò solennemente la decadenza perpetua dei Borbone dal trono di Sicilia.

La Sicilia, anche per evitare la cattiva propaganda borbonica antisiciliana tra i governi costituzionali italiani di quel momento, inviò in Lombardia una “centuria” simbolica, a combattere contro gli Austriaci durante la I Guerra d’Indipendenza italiana. Ricordiamo che in quel momento, a Torino, Firenze, Venezia, Roma e Napoli, oltre che a Palermo, erano governi costituzionali, e a Parma e Modena i duchi filoaustriaci erano stati provvisoriamente cacciati. La “Confederazione Italica” in quel momento sembrava una realtà e la Sicilia non poteva restarne del tutto fuori.

Quando, poco dopo, Ferdinando a Napoli sospese la Costituzione, che aveva concesso a febbraio a seguito dello scoppio della Rivoluzione Siciliana, richiamò dal nord le truppe (che non avevano mai combattuto contro gli Austriaci in verità), e represse le agitazioni liberali; per la stessa ragione il Governo siciliano generosamente mandò una spedizione in Calabria per aiutare i liberali “napoletani”, invece di pensare ad espugnare la Cittadella di Messina. Fu un errore e un fallimento. Un po’ di simpatia, ma nessun aiuto concreto, a Reggio, indifferenza a Catanzaro, aperta ostilità a Cosenza, poi la fuga via mare e la cattura da parte dei borbonici.

Il principale compito di questo novellato Parlamento di Sicilia era quello di darsi funzioni costituenti per adattare ai tempi la Costituzione del 1812. E quel Parlamento licenziò così una nuova legge fondamentale, lo “Statuto del Regno di Sicilia”, carta che non poté mai essere applicata, ma che fu un monumento di democrazia in un’epoca ancora soltanto liberale in senso assai moderato.

Il suffragio viene esteso a tutti i cittadini non analfabeti dai 21 anni in su. Naturalmente, ai tempi, il suffragio era solo maschile. Ma, mentre per il Capo di Stato, il re, era specificato che la successione era regolata dalla legge salica, e quindi riservata alla linea maschile, anche perché il re era anche “sacerdote cattolico”, in quanto Legato apostolico (le Due Sicilie non avevano mai rinunciato a questo antico privilegio), per la qualifica di elettore non era specificato il sesso, talché il Parlamento di Sicilia avrebbe potuto estendere il diritto di voto alle donne con una semplice legge ordinaria e non mancò qualche voce femminile isolata in tal senso. Il Parlamento era composto da una Camera dei Deputati, che prendeva il posto di quella dei Comuni, e di una Camera dei Senatori, che prendeva il posto di quella non elettiva dei Pari. La camera bassa si sarebbe dovuta rinnovare ogni 2 anni, e, per l’eleggibilità passiva, oltre al limite di età di 25 anni, si ponevano restrizioni minime (praticamente quelle che nel 1812 servivano per l’eleggibilità attiva): avere 18 onze di reddito annuale, o essere laureati, o commercianti, etc.

La Camera dei Senatori diventava elettiva, ogni 6 anni, con rinnovo di un terzo ogni due anni: a votare erano i “consorzi di comuni” (cioè i Distretti, che riprendevano il posto delle odiate Intendenze). I requisiti per l’eleggibilità furono lasciati piuttosto restrittivi; ex deputati per due legislature, ex ministri, professori universitari, vescovi, professionisti con non meno di 200 onze di reddito etc. (grosso modo come i requisiti di eleggibilità per i Comuni nel 1812). Niente più baroni parlamentari quindi, e gli stessi vescovi dovevano essere designati dai distretti per essere eletti nella camera alta. L’esecutivo e le politiche finanziarie rimesse alla fiducia del Parlamento (sulle leggi finanziarie e sui quantitativi delle forze armate la camera alta avente solo diritto di veto). Costituzionalizzata la Guardia Nazionale. Ridimensionati i poteri del re a quelli di formale capo di stato. Indipendente la magistratura, soggetta solo alla legge, e al sindacato di un’Alta Corte, nella quale i deputati potevano accusare, e i senatori giudicare. Reinserita la democrazia nei consigli civici e nelle magistrature municipali, riuniti i Comuni in Associazioni distrettuali.

Stabilito solennemente, ancora una volta, all’art. 1 addirittura, che la religione cattolica era “religione di stato”, ma non è più ribadito “ad esclusione di qualunque altra” come nel 1812, prefigurando la possibilità di “culti ammessi”, sia pure presumibilmente sottoposti a restrizioni. Ribadite tutte le libertà fondamentali, suggellate dalla clausola finale della riserva di legge ad ogni limitazione alla libertà: “Tutto ciò che non è proibito dalla legge, è permesso”.

Questo monumento di libertà di uno staterello dalle strutture fragili poteva reggere all’urto di uno stato potente, militarmente organizzato, senza alcun appoggio internazionale? Le casse erano vuote, e nessun ceto brillava per generosità in quel momento drammatico. Si ricorse a prestiti, che avrebbero gravato a lungo sulle finanze siciliane. Geniale e moderna l’idea del Ministro delle Finanze, Cordova, di cartolarizzare il valore della vendita dei beni nazionali, attraverso una specie di carta moneta o cedoline, dotate però di un modesto interesse; i relativi titoli sarebbero rimasti in circolazione per molti anni, almeno fino al 1869. Non si ebbe invece il tempo di riattivare la zecca per la quale si era stabilito di riprendere la monetazione siciliana in onze, tarì, grani e pìccioli, con la Trinacria nel “recto” di ogni moneta e l’effigie del re nel “verso”. Ma il “Re di Sicilia”, decaduti i Borbone, mancava.

Si tentò di dare la corona a un principe di sangue italiano, ciò che avrebbe garantito la perpetua indipendenza della Sicilia. Si pensò al cugino del Re di Sardegna, il duca di Genova Ferdinando, ribatezzato “Alberto Amedeo”, per evitare l’omonimia con l’odiato re napoletano. Ma l’interessato, su indirizzo del governo piemontese che sperava ancora in un’alleanza con Napoli, declinò l’invito. La Sicilia continuava a restare sola. Ancora una volta, per un gioco di potere internazionale, l’Inghilterra, come ai tempi di Napoleone, toglie la protezione navale alla Sicilia, abbandonandola al suo destino.

I rovesci della Rivoluzione in Italia, e la repressione nel Napoletano, consentivano quindi a Ferdinando di indirizzare i propri sforzi contro la Sicilia. Con un violento bombardamento, che gli valse il titolo di “Re Bomba”, riconquistò Messina tra gli eroici episodi di resistenza della popolazione civile, come i giovani Camiciotti o Rosa ’a Cannunera. Dopo la conquista la soldataglia borbonica si lanciò in vendette disumane contro la popolazione civile. Lo Stabile, da sempre filo-britannico, di fronte al disimpegno inglese, si dimette. Al suo posto succede un governo guidato dal marchese di Torrearsa. Nel frattempo, su mediazione inglese e francese, si arrivò ad un armistizio. Luigi Napoleone Bonaparte (il futuro Napoleone III, allora “solo” Presidente della II Repubblica Francese) offrì di inviare in Sicilia la Guardia Nazionale Repubblicana a difesa dell’Isola. L’idea piaceva alla minoranza democratica, ma spaventava gli aristocratici che la bloccarono. I Pari, sempre timorosi di ogni piega repubblicana o democratica, rifiutarono pure l’aiuto di patrioti italiani pronti a venire a difendere la Sicilia in pericolo.
Allo scadere dell’armistizio l’inesperienza militare dei Siciliani di fronte a un esercito organizzato e regolare si rivelò disastrosa. Cade anche il Ministero Torrearsa, sostituito dal Governo di Pietro Lanza e Branciforte, che dopo qualche mese richiama lo Stabile come ministro della Guerra. Cadde pure Catania, nonostante l’eroismo dei suoi abitanti, e le rappresaglie borboniche non furono minori che a Messina. Non restava che aprire le trattative. Nel frattempo cadeva pure Siracusa. Toccherà quindi proprio al Lanza, rampollo della più antica e alta aristocrazia sicula, chiudere l’esperienza del plurisecolare Regno di Sicilia.

Nel maggio 1849, ormai, la resa era inevitabile. Quattro capi della Rivoluzione, tra cui Ruggiero Settimo, presero salvi la via dell’esilio; Ruggiero Settimo fu accolto a Malta con gli onori di un Capo di Stato.

Nessuna repressione ulteriore per i rivoltosi, soltanto la “ritrattazione pubblica” per i Parlamentari che avevano votato la decadenza di Ferdinando II. La Sicilia otteneva una devoluzione integrale, dal punto di vista fiscale ed amministrativo, persino con polizia propria. In pratica, a parte la perdita del Parlamento, Napoli e Sicilia tornavano nei fatti due stati distinti e confederati. Persino la banca centrale pubblica, che i rivoluzionari avevano creato con il nome di “Banco Nazionale di Sicilia” con la fusione delle Reali Casse di Corte di Palermo e Messina, sopravviveva, consentendo alla Sicilia di avere almeno la propria moneta cartacea, attraverso i cosiddetti titoli apodissari, al pari del Banco delle Due Sicilie (il futuro Banco di Napoli), sotto il nome quasi impronunciabile di “Banco dei Regi Dominii al di là del Faro” (1850). Fu soppressa la competenza della Consulta delle Due Sicilie sulla Sicilia e fu istituita una “Consulta di Sicilia”, che prendeva il posto di quella semplicemente consultiva istituita nel 1831 dal luogotenente Leopoldo Borbone. La Sicilia, tranne che per la cittadinanza, gli esteri e la difesa, sembrava ora in tutto un vero e proprio stato confederato con Napoli. Era una resa più che onorevole, che vedeva in parte riconosciute le ragioni dei Siciliani. Ma sembrava anche la fine del sogno indipendentista. Il 15 maggio 1849 i borbonici rientravano a Palermo, e i patrioti non sapevano più cosa sperare per poter liberare la Sicilia.

  • 5 – Gli ultimi anni di governo borbonico

Negli anni che seguirono la Sicilia fu tutt’altro che doma. Ma il quadro politico si fa confuso. Il vecchio Ruggiero Settimo non costituì, come forse avrebbe dovuto, un governo siciliano in esilio, restando in realtà metà ospite e metà prigioniero degli Inglesi a Malta. Senza guida, le opposizioni siciliane andarono allo sbando. L’idea dell’indipendenza, anche confederale, divenne così minoritaria. Il Piemonte, attraverso la Società nazionale, faceva propaganda unitaria. Tutto sembrava immobile, fino al 1859 almeno, a parte il solito corollario di congiure e complotti, tutti facilmente sventati dalla polizia borbonica. Ricordiamo appena il tentativo di insurrezione di Nicolò Garzilli, del 1850, a Palermo, terminato con la sua fucilazione, ovvero il sacrificio di Salvatore Spinuzza, a Cefalù, nel 1857.

In questi anni si pose termine alla secolare Tavola comunale di Palermo, già in declino, quando il governo impose anche al Comune di Palermo di usare il “Banco dei Regi dominii al di là del Faro” (Banco di Sicilia) come tesoreria comunale, svuotandola definitivamente di ogni utilità. Ci furono propositi di convertire il vecchio banco di deposito in una banca moderna, che facesse anche credito commerciale ed emettesse carta-moneta, ma il governo borbonico fu inflessibile e il banco fu messo in liquidazione (1855), nonostante anche il principale Banco fungesse quasi solo da istituto di deposito e di emissione di titoli apodissari, con sezioni di sconto commerciale che sarebbero state autorizzate solo nel dicembre 1858. Da questo evento nacque comunque un dibattito sulla necessità per la Sicilia di avere una banca moderna, ovvero una “Cassa di risparmio”, cosa che però arrivò a compimento solo poco dopo la caduta del regime. Così come tardi (1859) arriva un sistema postale moderno, con la prima, e unica, emissione di francobolli siciliani.

Una notazione finale merita la politica linguistica e dell’istruzione borbonica. Le Due Sicilie non avevano una particolare vocazione ad aumentare il livello generale dell’istruzione. Si limitarono a razionalizzare le strutture esistenti e, sul modello francese da loro seguito da presso, a costruire una burocrazia pubblica dell’istruzione. In questo senso furono indubbi alcuni progressi, in relativo rispetto alla frammentarietà dell’istruzione pubblica settecentesca, ma con il mantenimento di forti ritardi, in relativo ad altri paesi, almeno visto il mutare dei tempi. Si può affermare però che si andò creando un sistema abbastanza diffuso di istruzione pubblica primaria. Fortunatamente il vuoto lasciato dall’istruzione pubblica negli studi medi, appena abbozzata, fu coperto dalle istituzioni religiose, cui fu appaltata gran parte dell’istruzione, a partire dai gesuiti che erano stati riammessi nel Regno dopo l’espulsione settecentesca. Qualche progresso in più fecero invece le università, seppure sotto il controllo occhiuto della burocrazia napoletana, che forse mal sopportava il fatto che la Sicilia avesse ben tre università, mentre il continente, a parte la facoltà di Medicina di Salerno, aveva soltanto l’Università degli studi di Napoli. Dal punto di vista linguistico il siciliano ormai era considerato lingua “nazionale” solo da alcuni siciliani, senza più alcun riconoscimento pubblico. Vi furono studi e cultori della lingua siciliana, ma solo di carattere strettamente privato, anche oltre l’Unità d’Italia. E ciò è naturale, giacché il siciliano era visto come una lingua potenzialmente separatista. Con tutto ciò l’italiano non era neanche particolarmente incoraggiato, giacché era anch’esso potenzialmente eversivo in quanto poteva richiamare a programmi politici unitari o confederali avversati dal regime. Ma non c’era alternativa al suo uso, non esistendo una lingua “duosiciliana”. Singolare che spesso questo non venisse chiamato “italiano”, ma in maniera più asettica “lingua illustre”, per evitare ogni riferimento politico. Nel complesso la Sicilia borbonica si trovava in una condizione linguistica singolare: tranne poche élite in grado leggere il francese o altre lingue straniere, solo il 10 % circa della popolazione era in grado di parlare o scrivere malamente in italiano (dato che bene o male un’istruzione di base in questa lingua finalmente si era fatta strada a spese di un latino che però persisteva), un po’ di più nelle città, un po’ di meno nei piccoli centri. Ma tutto ciò che era scritto ufficialmente era scritto solo in italiano, con il risultato che la quasi totalità della popolazione non trovava una letteratura in lingua propria, né aveva gli strumenti per accedere alle idee che venivano da fuori, restando quasi sequestrata culturalmente dal resto d’Europa.

Il 1859, ad ogni modo, fu l’anno della II Guerra d’Indipendenza italiana. Il Piemonte, con l’aiuto della Francia, strappa la Lombardia all’Austria. L’Austria si ritira nel Veneto, ed abbandona al proprio destino il resto d’Italia, Due Sicilie incluse. Nello stesso anno, improvvisamente, Ferdinando II, cui non si poteva negare dignità di statista, muore, lasciando un inesperto Francesco II sul trono (spregiativamente chiamato “Franceschiello”). Il Regno delle Due Sicilie, infiltrato di massoni sino al midollo, incapace di aprirsi alle novità del secolo, senza alcuna protezione o relazioni internazionali, era diventato il classico vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, devastato e logorato da una quarantennale e assurda lotta interna volta unicamente a piegare la Sicilia a un tentativo di colonialismo interno. In Sicilia la propaganda unitaria aveva dato i suoi frutti. In una corrispondenza privata, uno degli unitari, Francesco Crispi, ebbe a dire: «Il partito d’azione in Sicilia è nostro e perciò unitario… Ma accanto ad esso o dietro di esso c’è il partito separatista …». Ciò che accomunava gli esuli, tra unitari, federalisti e indipendentisti, era la possibilità di liberare la Sicilia dal giogo borbonico, quanto meno su di un piano di ampia autonomia amministrativa e politica.

Cronologia politica:

Luogotenenti (1816-1848):
1816-1817 Nicolò Filangeri, p.pe di Cutò
1817-1820 Francesco Borbone, p.pe di Calabria
1820 Diego Naselli d’Aragona

1820 Giunta provvisoria di Governo, in cui si alternano alla presidenza il Card. Pietro Gravina, per pochi giorni, poi il principe di Villafranca,  Giuseppe Alliata, e nella fase terminale il principe di Paternò, Giovanni Luigi Moncada

1820 Generale Florestano Pepe
1820-1821 Ten.generale Pietro Colletta
1821 Ten.generale Vito Nunziante
1821-1822 Niccolò Filangieri, p.pe di Cutò
1822-1824 Antonio Lucchesi Palli, p.pe di Campofranco
1824-1830 Pietro Ugo, marchese delle Favare
1830-1835 Leopoldo Borbone, conte di Siracusa
1835-1837 Antonio Lucchesi Palli, p.pe di Campofranco (di nuovo)

1837-1840 Onorato Gaetani, duca di Laurenzana
1840-1848 Luigi Nicola de Majo, Duca di S. Pietro

1848-1849 Regno di Sicilia indipendente [Presidente del Governo del Regno: Ruggiero Settimo]

“PrImi Ministri” (Ministri degli esteri):
1848-1849 Mariano Stabile
1849 Vincenzo Fardella m.se di Torrearsa

 1849 Pietro Lanza e Branciforte, p.pe di Trabia

Luogotenenti (1849-1859):
1849-1855 Carlo Filangieri, p.pe di Satriano

1855-1860 Paolo Ruffo di Bagnara, p.pe di Castelcicala

1860 Gen. Ferdinando Lanza

 

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