La Sicilia Greca
L’alba della politica in Sicilia, la vera fondazione del Regno di Sicilia, “Basileîa tês Sikelìas” è nella Civilità Siceliota.
Con questa puntata il nostro viaggio a ritroso è quasi finito..
Capitolo 2: Dalle Pòleis al Regno Siceliota
- 1 – La colonizzazione ellenica
Sono i Greci però che portano la Sicilia nella piena luce della storia con le loro possenti ondate migratorie iniziate nell’VIII secolo a.C. Quando gli Ioni, con il mitico Teocle, fondano la colonia di Naxos, nel 734 a.C., comincia una continuità di testimonianze storiche scritte che arriva fino ad oggi.
Ma è un anno dopo che si avrà l’evento decisivo. Questa volta sono i Dori, di Corinto, a fondare Siracusa, ad opera dell’ecista (così denominati i mitici fondatori delle colonie) Archìa. Segue una continua migrazione e fondazione di colonie da parte dei Greci che dura circa un secolo e mezzo.
I Siculi non possono in alcun modo arginare un’invasione, talvolta pacifica, tal altra aggressiva. Tentano, e talvolta riescono, a resistere nell’interno. Le coste sono perdute, tranne quelle settentrionali. Chi vuole restare o entrare in una pòlis greca come uomo libero, deve farlo restando privo di diritti politici, almeno nelle grandi colonie doriche del sud, mentre a nord pare che la fusione tra ioni e siculi sia stata più pacifica e paritaria, almeno nelle prime generazioni.
Le pòleis (città-stato) dei primi greci nascono come comunità di liberi colonizzatori, e quindi come “repubbliche” dove, almeno in teoria, tutti i coloni hanno pari dignità e si dividono le terre. Ma la sottomissione o l’afflusso dei Siculi, così come gli afflussi di coloni di seconda generazione, causano poco a poco una evoluzione aristocratica delle repubbliche siceliote dove le aristocrazie sono composte dai discendenti dei primi colonizzatori. Si sa pochissimo altro, del resto, dell’organizzazione politica di queste primitive comunità. Ciò che è stato tramandato in epoche successive resta ammantato dalla leggenda, come nel caso del legislatore Caronda di Catania, nel secondo VII secolo, che sembra anche lui essere stato espressione del primitivo ceto aristocratico, ma anche, appunto attraverso questa statuizione di leggi, segno che il potere del ceto dominante tendeva ora ad essere moderato da un mediatore per tenere conto delle spinte dal basso dei nuovi venuti, privi di diritti politici.
A Siracusa, da subito la più grande delle pòleis greco-sicule, ad esempio, il potere spetta ai discendenti dei primi coloni, che costituiscono l’aristocrazia dei Gàmoroi, mentre tutti gli altri, esclusi dal potere politico, greci o siculi che fossero in origine, erano i Kyllìrioi, semplici lavoratori, in condizione servile ma forse non propriamente schiavi.
È del tutto errato parlare di una “dominazione greca” per questa colonizzazione. Le repubbliche greco-sicule furono sin dall’inizio del tutto indipendenti dalla Madrepatria, che presto superarono in ricchezza, cultura e potenza, richiamandosi alla stessa solo per ragioni affettive e in momenti di particolare solennità o di crisi politica.
La Sicilia acquistava per lunghi anni una struttura municipale e quindi politicamente frammentata, e una struttura aristocratica, ciò che sarebbe restato una vera costante nella sua lunghissima storia.
Dopo le prime due colonie fu la volta di Zancle (Messina) nel 730, Leontini (Lentini) e Katane (Catania) nel 728, Megara Iblea nel 727, la piccola Mile (Milazzo) nel 716, Gela nel 688, con cui si considera terminata la prima ondata di colonizzazione. Le colonie più settentrionali furono fondate dai Calcidesi dell’Eubea (Ioni), Megara dai Megaresi (Dori), Siracusa – come abbiamo detto – dai Corinzi (Dori anche loro), Gela da Rodii e Cretesi (anche questi Dori).
Da subito Siracusa assume una posizione dominante e conquista un retroterra. Un secolo dopo la fondazione troviamo alcune fortezze nell’interno, come Acre (663) o Casmene (643), segno di evidente espansione della polis.
Intorno alla metà del VII secolo si assiste ad una seconda ondata di colonizzazioni, ormai non più solo dalla Grecia propria, come la prima, ma anche dalle stesse città greco-sicule, ormai cresciute di numero e potenza, a ottant’anni circa dai primi insediamenti. Così nacquero Imera (vicino l’attuale Termini Imerese) nel 649 fondata da Milazzesi e Messinesi con apporti siracusani, Selinunte (nell’estremo occidente) nel 627 fondata dai Megaresi, Camarina nel 598 fondata dai Siracusani, e, finalmente, Akragas (Agrigento), nel 580 a.C. ad opera dei Geloi e, forse, ancora una volta dei Rodii, tra cui sarebbe stata presente la famiglia regale degli “Emmenìdi”, da cui sarebbero venuti i futuri tiranni. Negli anni immediatamente successivi, con la spedizione di Pentatlo, a capo di Cnidi, dapprima a Lilibeo, fallita per la presenza dei Punici e il susseguente insediamento di ripiego a Lipari, si esaurisce del tutto la colonizzazione Greca. Infatti, molto dopo, intorno al 510, una spedizione spartana nell’estremo occidente, dove viene fondata l’effimera colonia chiamata Eraclea ai piedi del Monte Erice, parimenti fallisce soccombendo all’assalto di Fenici ed Elimi alleati. La svolta è significativa anche in termini di date. Fino ad allora i Fenici, di fronte alle continue ondate di Greci, visto il loro minore numero, avevano preferito abbandonare a poco a poco i loro empori e concentrarsi in occidente. A questo punto, però, le cittadine fenice, ormai a loro volta abbastanza grandi da potersi difendere, ostacolano ogni ulteriore avanzata ellenica, alleandosi anche sia con gli autoctoni Sicani ed Elimi, sia con la grande e vicina città di Cartagine che poco a poco le mette sotto la propria protezione.
Akragas, per contro, presto sarebbe diventata la seconda dei Sicelioti (così chiamati i Greci di Sicilia) per ricchezza economica, potenza politica e numerosità demografica, dietro Siracusa.
- 2 – Le prime tirannidi e i Dinomenìdi
Sul finire del VII secolo l’organizzazione politica tradizionale entra in crisi; cominciano le stàseis, cioè le fazioni civili, di cui la citata legislazione di Caronda sembra essere una testimonianza. All’inizio tra clan aristocratici, poi tra aristocratici e popolari. Purtroppo i primi secoli della vita di queste città-stato sono – come detto sopra – avvolti nella nebbia, tra storia e leggenda. In alcuni casi sembra che il partito popolare sia riuscito ad imporre un “tiranno”, come accade con Panezio a Leontini (615), di cui però in pratica nulla sappiamo.
Sarebbe stata proprio la più giovane delle pòleis, la stessa Akragas, a sperimentare precocemente la crisi del governo aristocratico e l’introduzione di forme di governo autoritario, con la tirannide di Falaride (572-556), la prima, a parte quella oscura di Panezio. Le tirannidi erano in grado di favorire la modernizzazione sociale meglio delle vecchie repubbliche aristocratiche. Il passaggio dalle repubbliche aristocratiche alle tirannidi fu lento ma generalizzato, più o meno in tutta la Sicilia, come del resto in Grecia (si pensi ad Atene e alla tirannide di Pisistrato). A Falaride si attribuisce la sottomissione dei Sicani dell’interno, con la conquista della mitica Camico, e il consolidamento dei confini dal Salso al Platani, con la fondazione di Eraclea Minoa, o comunque il suo assorbimento sulla base di un precedente insediamento creato dai Selinuntini. Sarà rovesciato presto e la repubblica sarà restaurata, ma il destino politico generale della Sicilia sembrava ormai segnato verso questa nuova forma di governo. Anche questo antico tiranno resta avvolto nella leggenda, come il suo mitico “toro”, strumento di tortura dentro il quale “arrostire” i nemici politici, che pare avesse il potere acustico di trasformare le strazianti grida dall’interno in muggiti. Una congiura, però, avrebbe fatto finire lo stesso Falaride dentro tale strumento di tortura e di eliminazione fisica. Sarebbe seguito nuovamente un regime oligarchico di cui, però, sappiamo pochissimo.
La metropoli siracusana, che già aveva nel frattempo mostrato il proprio primato sottomettendo le città più vicine e i Siculi dell’interno, è quella dove l’aristocrazia dei Gàmoroi resiste invece più a lungo. Un tentativo di ribellione di Camarina (553) in alleanza con i Siculi, termina con la punizione ed espulsione di tutti i suoi cittadini. L’unica trasformazione degna di nota è che anche qui inizia un processo di codificazione delle leggi ad opera del quasi mitico Diocle. La sua legislazione avrebbe ispirato quella di altre poleis di origine dorica, un po’ come quella di Caronda si era diffusa in quelle di origine ionica.
Più certamente a Gela, Cleandro, aristocratico figlio di Pantare, un vincitore nei giochi olimpici, diventa tiranno nel 505. Dopo di lui, ucciso da una congiura, sarà la volta del fratello Ippocrate (498). A Gela inizia così la storia del primitivo stato greco di Sicilia. Ippocrate, infatti, si distingue per la sua politica espansiva, assoggettando Nasso, Leontini e Zancle, dove mette tiranni subalterni. In particolare a Zancle era stato chiamato dagli Zanclei, per ribellarsi ai Sami, che avevano invaso la città; arrivato in città, tuttavia, Ippocrate si accorda con loro e mette in schiavitù gli abitanti della città, aggiunta così al suo impero. La successiva ripopolazione della città con abitanti provenienti dalla Messenia, nel Peloponneso, ex schiavi spartani (Iloti) in fuga, fece tramutare il nome in “Messene”, da cui l’odierna Messina. Ippocrate stringe il cerchio intorno alla Repubblica Siracusana (la I, quella aristocratica), ma senza grandi risultati, perché privo di flotta. Ottiene, dopo averli sconfitti sul fiume Eloro, solo la signoria sul territorio di Camarina, che viene da questi ripopolata da mercenari. Nel 491, in una battaglia contro i Siculi di Ibla, Ippocrate muore, e gli succede il comandante della cavalleria, Gelone, della famiglia dei Dinomenìdi, dal nome di Dinomene, sia il padre, sia l’ormai mitico antenato che aveva partecipato alla fondazione della città di Gela. Poco dopo, approfittando del difficile consolidamento del potere del nuovo tiranno, il signore di Reggio, Anassilao, con l’aiuto di profughi dall’Asia minore, ormai occupata dall’Impero persiano, assalta Zancle e la toglie al dominio di Gela (490), fissando poi in Sicilia la sede della propria tirannide. Per la prima volta la Sicilia entra in contatto diplomatico con Roma, il cui Senato, in una primissima Repubblica da poco uscita dalla monarchia dei Tarquini, in occasione di una carestia, chiede e ottiene da Gelone un ingente rifornimento di grano. Anche Gelone si confronta con i giochi olimpici, sfruttando in chiave politica la sua vittoria nella corsa con la quadriga.
Consolidato il potere, Gelone deve venire ad accordi con Siracusa, e con l’indipendente Akragas, giacché l’ingerenza cartaginese sull’occidente della Sicilia comincia a farsi minacciosa per tutti. Le due città filo-puniche, perché poste ai confini estremi della grecità, Imera e Selinunte, chiudono gli “empori” degli altri sicelioti. Siracusa e Gela ne sono danneggiati. Sotto Segesta il legislatore siracusano Dorieo, di cui si è già detto, viene ucciso; Gela chiede aiuto alla Grecia propria, ma questa sempre più minacciata dall’Impero Persiano, lo lascia solo. La guerra con i Punici entra in una fase di stallo o bassa intensità, ma non per questo cessa.
Nel frattempo la storia di Siracusa era ormai segnata. Nel 485 Gelone, già da 6 anni tiranno di Gela, conquista Siracusa, chiamato proprio dai Gàmoroi a seguito di una rivolta dei Kyllìrioi, e se ne insignorisce. Da questo momento in poi Gela cessa di avere storia propria e diventa un municipio avanzato della signoria di Siracusa, sempre più ampia. Gelone pone la propria sede a Siracusa. Ad esempio, alla morte di Gelone, Gela va al fratello minore Polizelo, come tiranno “vassallo” del fratello maggiore, Ierone, al quale spetta la più grande Siracusa, dopo che questi era stato per anni il governatore di Gela proprio per conto del fratello. Ad ogni modo più della metà della popolazione di Gela fu trasferita a Siracusa, che così divenne una delle più grandi metropoli del mondo greco di allora. Anche Camarina, che si era ribellata alla successione di Gelone ad Ippocrate, è nuovamente distrutta e la sua popolazione deportata (sarebbe comunque stata ripopolata dai gelesi una ventina circa di anni dopo).
Una delle ultime repubbliche oligarchiche, forse troppo vicina a Siracusa, Megara Iblea, attacca la grande signoria di Gelone. Facile la vittoria dei Sicelioti (483) ormai praticamente unificati dalla dinastia dei Dinomenìdi. I nobili sono deportati a Siracusa come liberi cittadini, i poveri venduti come schiavi, la città distrutta. Siracusa cresceva sempre più.
Sulle prime del V secolo la Sicilia greca trova una sorta di unità politica nell’asse tra i tiranni di Siracusa (i Dinomenìdi) e Terone di Akragas (della dinastia degli Emmenìdi, tiranno dal 488 al 472). Terone si diventa signore di Akragas in ragione della propria ricchezza. Celebri i suoi allevamenti di cavalli, con i quali ottiene significativi successi olimpici. Terone assoggetta Imera (tolta al tiranno Terillo nel 483), costruendo uno stato-cuscinetto tra la Sicilia greca e quella punica, mentre Gelone mantiene tutta la Sicilia a est del Salso, ponendo tiranni satelliti nelle città sottomesse, e inglobando nel proprio dominio, seppure con relativa autonomia, anche i Siculi dell’interno. Gelone sposa Demarete, figlia del tiranno agrigentino, sancendo così una più robusta alleanza tra le due signorie.
Sono questi in Grecia gli anni delle Guerre Persiane. I Fenici spingono Cartagine ad attaccare i Greci da ovest, mentre loro, ormai flotta dell’Impero persiano, li stanno attaccando da est. È il 480 a.C. e i Cartaginesi avanzano con uno spaventoso esercito di 300.000 uomini, reclutati anche tra popoli barbari a loro vicini, come Sardi, Liguri, Iberi e Libici: i Sicelioti, sotta la guida di Gelone di Siracusa e Terone di Agrigento, sbaragliano i Cartaginesi, guidati da Amilcare, che muore in battaglia, nella celebre battaglia di Imera; i Punici sono costretti a ripiegare nei loro domini storici (la cosiddetta “Epicrateia” o Provincia punica) da dove non sarebbero usciti per i successivi 70 anni. Tra i combattenti dal lato dei Greci, si distingue un giovane e valoroso comandante indigeno, il siculo Ducezio. Anche il tiranno di Reggio e Messina, Anassilao, genero dell’ex tiranno Terillo di Imera, è costretto ad entrare come subalterno nell’egemonia siracusana. È questo il periodo in cui se Siracusa è la città più potente, forse Akragas è la più ricca, e dove comincia quell’ambizioso progetto edilizio che darà vita alla celeberrima Valle dei Templi.
A Gelone (478) succede il fratello Ierone I. La successione non è indolore. Ierone invia il fratello Polizelo, di cui temeva la rivendicazione della successione in una spedizione in Calabria, intromettendosi per la prima volta in un’area sulla quale i Sicelioti non avevano mai esercitato la loro autorità. Ritornato vincitore, ma sentendosi emarginato, Polizelo si rifugia ad Akragas da Terone, diventato suo suocero per aver sposato Demarete, vedova del fratello Gelone. Segue una breve guerra tra Siracusa e Agrigento, ricomposta con l’accordo che Polizelo avrebbe governato Gela per conto del fratello Ierone. Durante questo breve screzio, gli Imeresi tentano di scuotere il dominio agrigentino e di rivolgersi per aiuto a Siracusa, ma il figlio di Terone, Trasideo, schiaccia la rivolta e quasi decima la popolazione imerese, che ha bisogno di una ricolonizzazione. Passati questi torbidi, il dominio di Ierone I su Siracusa e gran parte della Sicilia è consolidato, mantenendo, almeno formalmente l’asse con Terone di Akragas.
Consolidato il potere in Sicilia, Ierone sventa diplomaticamente un tentativo di Anassilao di assalire Locri, con la quale è stabilita un’alleanza (477). Il suo successore, Micito, di lì a poco, resterà fedelmente dentro l’egemonia dinomenida. L’influenza siceliota sulla Magna Grecia cresce quindi di anno in anno. Si può quindi rivolgere al riassetto interno dei suoi domini: le popolazioni ioniche di Nasso e Catania sono deportate a Lentini e, per ripopolare Catania ormai quasi deserta, Ierone chiama coloni dorici dal Peloponneso, ridandole il nome di “Etna” (476) e ponendola sotto il dominio del figlio Dinomente, che così viene associato al trono. Gli stravolgimenti etnici stavano ponendo la componente dorica ormai in netta prevalenza su quella ionica, al punto da diventare quello dorico il dialetto predominante nell’isola controllata da Siracusa. Solo Selinunte, all’estremo occidente, e già praticamente in area di influenza punica, sfugge alla diarchia. A nord, per la prima volta, i Sicelioti si scontrano via mare con una potenza italiana, allora rappresentata dagli Etruschi, sconfiggendoli a Cuma (474) e fermando così la loro espansione verso sud. Sono cacciati dalle Eolie, e per breve tempo una guarnigione siceliota si stabilisce a Ischia (Pitecussa).
Alla morte di Terone (472), ad Agrigento, il figlio Trasideo rompe la tradizionale alleanza con Siracusa e tenta il riscatto. Ierone lo sconfigge e diventa, praticamente, il padrone dell’intera Sicilia greca (incluse Reggio e l’alleata Locri, ed esclusa Selinunte). Si noti, però, che Diodoro ci informa che nella Agrigento al momento sotto egemonia siracusana, cacciati i tiranni, si instaura un regime “democratico”: ancora una volta la città dei templi è un laboratorio politico che anticipa innovazioni che presto si sarebbero estese a tutta la Sicilia. Con tutto ciò l’egemonia Siracusana, sebbene più estesa e strutturale rispetto al vecchio semplice primato della vecchia polis aristocratica sulle altre città, non dà vita ancora ad uno stato siceliota vero e proprio. Ierone non pretende tributi né truppe dalle città sottomesse. E l’adozione di leggi o basi monetarie siracusane avviene sulla base di una egemonia di fatto, così come solo di fatto è l’ingerenza di Ierone nel poter stabilire chi governasse le singole città con i loro distretti rurali circostanti, così come la più grande politica siceliota. Tuttavia questa egemonia dinomenida sarebbe stata la prima forma di cooperazione al di sopra della dimensione strettamente municipale dalla quale, per diverse tappe, sarebbe poco a poco nato un vero e proprio “Regno di Sicilia” nei secoli successivi, infine confluito nella Provincia romana. D’altronde, a ovest, per quel che ne sappiamo, il primato di Cartagine fino alla battaglia di Imera non era andato al di là di un primato economico. Ora si era passati a un coordinamento militare, ma anche lì sarebbero passate generazioni perché progressivamente si trasformasse da confederazione di poleis puniche o greco-puniche,e città/tribù indigene, ad una vera e propria provincia cartaginese. Nel 467, al culmine della propria potenza, l’anziano Ierone I muore.
- 3 – La “politèia” e la Lega Sicula di Ducezio
Le tirannidi però non sopravvivono ai loro più grandi esponenti. Gli eredi (come già visto ad Akragas con Trasideo, figlio di Terone, e poi a Siracusa con Trasibulo, fratello di Ierone I), incapaci, sono rovesciati entro gli anni ’60 del V secolo a.C. e dappertutto si costituiscono repubbliche, più o meno aperte alla partecipazione popolare questa volta, e quindi “democratiche”. Tranne a “Etna” (cioè Catania) dove Dinomene, figlio di Ierone I, mantiene il potere per qualche anno, per poi essere cacciato dai Siculi guidati da Ducezio nel 461, con il ritorno all’antico nome di Catana con gli esuli che prima erano stati cacciati. Nello stesso anno anche le ultimi tirannidi nelle città dello Stretto sono rovesciate, addirittura con un breve tentativo, di tornare all’antico nome di Zancle. Detto tentativo non resisterà perché Messina diventerà il rifugio dei mercenari di tutta la Sicilia, mentre tutti gli abitanti di ogni polis tornano alla propria terra originaria, e questo afflusso di mercenari sopraffà l’originario elemento calcidese della città dello Stretto. In ogni caso Reggio e Messina riprendono ciascuna per la propria strada. Ma, in genere in Sicilia, non è, appunto, il ritorno alla vecchia aristocrazia. Il potere a Siracusa, nella Repubblica istituita nel 466 (che potremmo chiamare la “II Repubblica”) risiede ora in 15 strateghi, coadiuvati da un Consiglio elettivo, e dall’Assemblea popolare di tutti i cittadini. Non essendo retribuite le cariche pubbliche, queste potevano essere ricoperte solo da benestanti. A Siracusa, quindi, si instaura una democrazia moderata, la cd. “Politèia”, in cui il potere ricade ormai nell’aristocrazia del censo e non più in quella del sangue. Ordinamenti simili si hanno nelle altre città. Un tentativo di colpo di stato da parte di un esponente del partito popolare, tale Tindaride, sventato nel 454, fa introdurre a Siracusa il “petalismo”, corrispondente siceliota dell’ostracismo ateniese, con cui i soggetti politicamente pericolosi erano esiliati per cinque anni. Il predominio siracusano sulle altre pòleis sembra politicamente indebolito, ma non cessa del tutto, anzi sembra rafforzarsi economicamente per mezzo ora anche di contributi, o veri e propri tributi, riscossi soprattutto dai Siculi dell’interno.
La Repubblica siracusia-siceliota, pur combattuta dalle fazioni interne, non abbandona la politica dei tiranni Dinomenidi di controllo delle rotte tirreniche. Il “nemico” sono sempre gli Etruschi, ora declinante, ed umiliato da spedizioni siceliote che saccheggiano e devastano le coste dell’Etruria, l’Elba, la Corsica.
La più grossa sfida che i Greci di Sicilia (o Sicelioti) devono superare in questa fase è però proprio la rivolta dei Siculi, vera rivolta nazionale indigena guidata da Ducezio, che, dopo il successo di Catania, fonda la città di Menainon e conquista Morgantina (459). Per tutta risposta Gela, ormai assai autonoma da Siracusa, ripopola la città di Camarina in chiave anti-sicula. Questo condottiero, rispetto ad altri Siculi, può definirsi un siculo ellenizzato, che conosceva molto bene la civiltà greca, ma che proprio grazie a ciò aveva maturato una coscienza nazionale propria contrapposta a quella ellenica. I Siculi, ormai in parte grecizzati, mal sopportavano il predominio e la continua penetrazione dei nuovi venuti. La rivolta fu non solo politica, quindi, ma etnica, volta al respingimento dei coloni, cementata dal culto nazionale degli Dei Palici. La Lega Sicula (formalmente creata nel 453, lo stesso anno della fondazione di Paliké) tenne in scacco per ben 9 anni (459-450) le armi dei Sicelioti. Nel 452 Ducezio conquista Inessa, nell’alta valle del Simeto, città fondata anni prima dai profughi ieroniani da Catania/Etna. Vi furono atti di vero eroismo come quello dei cittadini di Trinakia, che preferirono uccidersi tutti l’un l’altro prima che i Greci entrassero nelle loro mura. Alla fine la maggiore potenza greca ebbe ragione con la sconfitta di Ducezio a Nomai (450). La Repubblica siracusana riuscì a prevalere, una colonia di sicelioti fu condotta pacificamente a Enna, nel cuore della Sicilia, ma di fatto si affievolirono le discriminazioni tra Siculi e Sicelioti, da questo momento in poi sempre più un unico popolo con due lingue. A Ducezio fu concesso l’onore delle armi, e, dopo un periodo di esilio a Corinto, fondò una città-stato sulla costa tirrenica, Kale Akte (448), mista tra Sicelioti e Siculi, su cui avrebbe regnato sino alla morte (440). Si ha quindi un breve conflitto con Akragas, che deve accettare infine l’egemonia siracusana sul resto della Sicilia, rinchiudendosi nel suo distretto. Sembrava che per la Sicilia ci dovesse essere un lungo periodo di pace, ma questa non sarebbe durata a lungo.
La seconda metà del V secolo, infatti, vide ancora una volta la Sicilia protagonista della grande storia internazionale. Questa volta è il turno della Guerra del Peloponneso, scontro mortale tra Atene e Sparta.
L’egemonia siracusana sulla Sicilia Greca faceva sì che la Sicilia dorica prevalesse su quella ionica, e quindi che la Sicilia parteggiasse per Corinto e Sparta, rifornendole di generi alimentari, mettendo così in scacco la potenza navale di Atene.
Atene cerca di contrare questo appoggio siceliota ai Peloponnesiaci dapprima ingerendosi nella politica siciliana, poi addirittura pensando ad una vera e propria invasione della Sicilia. Intanto stipula alleanze con le poche città siciliane non soggette all’egemonia siracusana: Segesta, Haliciae (altro piccolo centro di Elimi), Lentini e, fuori dalla Sicilia, Reggio. Tra l’altro, questi accordi tra Elimi e Atene testimoniano che all’altro capo dell’Isola l’egemonia cartaginese non era andata allora ancora molto al di là di un blando protettorato. Favorita da uno scontro tra Lentini e Siracusa, Atene partecipa a questa guerra con un piccolo esercito (427). Dalla parte di Atene e Lentini si schierano contro Siracusa e i suoi alleati, cioè contro tutte le città doriche, compresa Locri in Calabria, e per scuoterne il giogo, le città di Camarina, Catania, Nasso, e Reggio, mentre Akragas, ormai dedita solo all’agricoltura e al commercio, resta neutrale. I combattimenti vanno avanti in maniera non decisiva dall’una parte e dall’altra per qualche anno. Le operazioni si svolgono in prevalenza sullo Stretto, dove Messina è temporaneamente occupata dagli Ateniesi e poi liberata dai Sicelioti; Sicelioti che cominciano ad aver paura dell’eccessivo espansionismo ateniese.
Si arriva così ad una pacificazione tra le città-stato siciliane in cui avviene un’importante svolta. Nel Congresso di Gela del 424 a.C., cui parteciparono anche rappresentanti indigeni siculi, il politico siracusano Ermocrate, appartenente al partito oligarchico, individua per la prima volta nelle minacce esterne, e in particolare in Atene, il vero pericolo per la Sicilia invitando tutti alla concordia “nazionale”: “Non siamo più Dori, né Ioni, ma Siciliani!”. Questo discorso segna il superamento di ogni divisione etnica in Sicilia. Dopo 300 anni dall’inizio della colonizzazione, i Siciliani si sentono greci di lingua e civiltà, naturalmente, ma scoprono, forse contagiati dal nazionalismo siculo, che la loro vera patria è ormai soltanto la Sicilia. Questo discorso sarebbe stato considerato l’atto di nascita del Sicilianismo politico, inteso come identificazione della Sicilia come comunità politica di riferimento; visione politica che sarebbe restata, tra le altre, una vera costante politica della storia siciliana sino ai nostri giorni. In quel frangente, comunque, agli Ateniesi non resta altro che accettare la ritrovata unità dei Siciliani, e quindi si ritirano.
Una successiva guerra civile (422) a Leontini tra oligarchici e popolari determinò poi l’intervento di Siracusa, ormai padrona di tutta la Sicilia, all’infuori di quella che era diventata una sorta di “Svizzera” dei tempi: Akragas. Gli oligarchici, alleati dei Siracusani, si trasferiscono nella metropoli. La città è rasa al suolo. I profughi lentinesi invocano l’aiuto degli Ateniesi, che però ancora indugiano di fronte a una spedizione così azzardata. Un nuovo conflitto tra Selinunte, fedele a Siracusa e la città elima di Segesta, alleata di Atene, diventa infine il casus belli con il quale Atene spera di spezzare una volta per tutte le retrovie siciliane della Lega Peloponnesiaca degli Spartani. Questa volta la spedizione siciliana, episodio cruciale, anzi determinante della Guerra del Peloponneso, consta di 250 navi e 40.000 soldati circa (415 a.C.). Gli Ateniesi non trovarono però, oltre Segesta e qualche tribù indigena, alcun alleato in Sicilia, se non Catania, ma solo perché presa di sorpresa. Tutta la Sicilia greca ebbe paura di questa spedizione e si strinse intorno a Siracusa, levando un esercito non meno imponente di quello degli invasori. Akragas soltanto rimase neutrale come sempre. La spedizione ateniese si risolse in un disastro, i Sicelioti tagliano i rifornimenti all’esercito, lo sconfiggono, fanno strage dei soldati Ateniesi e dei loro alleati, costringono i superstiti all’orrenda prigionia delle Latomie, da cui pochissimi sarebbero usciti vivi. Protagonista della resistenza contro gli Ateniesi è ancora Ermocrate, che riduce gli strateghi da quindici a tre, concentrando il potere nell’ora più difficile.
La vittoria sugli Ateniesi galvanizzò però il partito democratico di Siracusa, guidato da Diocle, che prevale riforma la costituzione della II Repubblica Siceliota-Siracusana (dopo la I, quella dei Gàmoroi) in senso apertamente popolare, sul modello ateniese, con il sorteggio delle magistrature. Ermocrate, capo del partito oligarchico, è mandato in esilio nel 411. Nell’euforia generale Selinunte attacca di nuovo Segesta.
Ma questa esuberanza siceliota risveglia dal lungo sonno il tradizionale nemico punico: gli Elimi di Segesta ed Erice si prostrano a Cartagine come tributari in cambio di aiuto. I Cartaginesi pensano di poter approfittare delle guerre e delle divisioni interne all’avversario per sottomettere una volta e per sempre l’Isola e vendicare la sconfitta di Imera di settant’anni prima. Guida la spedizione un Annibale, nipote di quell’Amilcare che era stato sconfitto ad Imera.
Selinunte, indifesa, estremo avamposto ellenico, è distrutta, saccheggiata, i suoi abitanti trucidati, donne e bambini condotti in schiavitù (409). A Imera i Cartaginesi trovano un esercito siceliota mandato da Diocle, ma la sorte non fu diversa. Mezza popolazione riuscì a fuggire, l’altra mezza ebbe la stessa sorte dei Selinuntini (408). Forse i Cartaginesi si sarebbero accontentati di queste conquiste, e di avere trasformato l’intera Sicilia occidentale da una rete di città-stato amiche in una vera e propria “provincia” del loro impero. Ma in questo frangente ritorna in Sicilia Ermocrate, che con un esercito privato, senza l’autorizzazione di Siracusa, sbarca sulle rovine di Selinunte, attacca i Punici, e ne scatena ancora una volta la reazione. Approfittando del fatto che Diocle stesso era stato mandato in esilio, Ermocrate torna a Siracusa (407), ma i Siracusani, temendo che volesse farsene tiranno, lo uccidono. Tra i suoi sostenitori scampati all’eccidio, un giovane di 24 anni che avrebbe segnato la storia siciliana: Dionisio, che poi sarebbe passato alla storia con il soprannome di Il Vecchio.
Nel frattempo l’avanzata dei Punici sembra inarrestabile. Gli Agrigentini, che avevano affidato a Siracusa la difesa del loro territorio, fuggono in massa quando i Cartaginesi entrano in città. Poi questi entrano a Gela, a Camarina, Siracusa è infine presa d’assedio.
- 4 – L’epoca dei Dionisi
Ed è in queste condizioni che nel 406 il giovane politico appartenente alla fazione di Ermocrate si fa dare la somma dei poteri, e rispolvera il titolo di “Stratega autocrate”, che era già stato di Gelone e Ierone: inizia la nuova tirannide di Dionisio il Vecchio. Sposa la figlia di Ermocrate, a sottolineare la continuità di una linea politica. Questa, in un’ultima rivolta di Siracusani che tentavano di ostacolare il ritorno della tirrannide, in sua assenza, fu orrendamente violentata e uccisa. Al ritorno in città, Dionisio avrebbe fatto giustizia e consolidato comunque il suo potere assoluto.
Grazie a un attacco di peste tra le fila dei Cartaginesi egli riesce ad ottenere una pace tutto sommato vantaggiosa: Selinunte e Imera, insieme a tutta la provincia occidentale, è riconosciuta a Cartagine. I superstiti di Imera, insieme a coloni punici, fondano Terme (Termini) nei pressi di Imera stessa, che viene abbandonata per sempre. Akragas, Gela e Camarina neutralizzate e soggette a tributo ai Punici. Tutte le città sicule e siceliote libere, solo Siracusa a Dionisio. In realtà quest’ultima parte del Trattato non sarà rispettata e in breve Dionisio sarebbe diventato il signore di tutta la Sicilia siceliota (già entro il 402), ma tanto era bastato a salvare la Sicilia greca da sicura rovina. Con lui la II repubblica muore e comincia la II tirannia.
Passato alla storia come un tiranno, nel senso moderno del termine, Dionisio fu certo un dittatore, ma anche un grande statista. In un certo senso egli è il vero fondatore dello Stato di Sicilia. Superando l’antica semplice egemonia, costruisce una vera amministrazione statale, sotto l’apparente struttura di Lega, della quale si mette a capo come “Arconte di Sicilia” (ma il titolo non è certo), mentre – a parte – resta “stratega autocrate”, cioè tiranno, della (altrettanto apparente) Repubblica municipale di Siracusa. A differenza dei precedenti tiranni arcaici non abolisce le assemblee popolari e le magistrature elettive, ma le svuota, facendo eleggere sempre uomini a lui fedeli, così come nelle altre città soggette al suo dominio.
Anche in Italia fa una cosa del genere, ponendo a Locri una “reggia secondaria”, con tanto di seconda moglie (Doride) in contemporanea a quella siracusana (Aristomache), e proclamandosi Arconte d’Italia. Ma in Italia il suo potere è più debole, poiché riesce a controllare solo la Calabria meridionale, mentre per le altre città greche ambiva solo ad essere un protettore rispetto all’espansionismo di Bruzzi e Lucani che pressavano verso sud.
Dionisio trasforma la Sicilia a suo piacimento, deporta popoli, distrugge e rifonda città. In questa politica, però, è evidente il disegno di disperdere e deportare l’elemento ionico-calcidese, a favore di quello dorico. Più difficile il rapporto con i Siculi, troppo numerosi per essere eradicati. Si limita a mescolarli con i Sicelioti, come quando ad esempio stanzia una colonia militare ad Adrano (399), in pieno territorio siculo.
Il tiranno siciliano si ingerisce anche nella politica della Grecia, più che altro sostenendo sempre Sparta, sia nel suo periodo di breve egemonia, sia dopo la sconfitta di questa ad opera dei Tebani.
In una seconda guerra contro i Cartaginesi, Dionisio si erge a liberatore dei Sicelioti dalla loro tirannide. La guerra comincia con un pogrom dei mercanti punici nelle città siceliote. Dopo di che avanza inarrestabile. A lui si uniscono le popolazioni delle città sottomesse a tributo dai Cartaginesi, come Camarina, Gela, Agrigento, e persino Terme. Le polèis dell’epicrateia punica, in gran parte indigene elime e sicane, si schierano con Dionigi. Panormo (Palermo) è aggirata dall’esercito greco, mentre i Cartaginesi si rinserrano a Mozia, nell’estremo occidente, che infine è presa e distrutta nel 397. Ma, nonostante questa vittoria, non riesce a debellare la presenza punica in Sicilia. L’anno dopo, infatti, il generale Imilcone sbarca in forze a Palermo, riguadagna alla causa le comunità indigene dell’ovest e riguadagna le posizioni perdute. Si spinge quindi verso est, scortato dalla flotta di Magone, ed espugna tutta la costa tirrenica e le Eolie, entrando infine a Messina. Anche i Siculi abbandonano i Sicelioti per Cartagine. Alla fine Dionigi si ritrova assediato a Siracusa, dove neanche l’arrivo di una piccola flotta spartana sembra poterlo salvare. Nell’Assemblea cittadina, che Dionisio non aveva mai formalmente sciolto, come si ricorderà, cominciano a farsi critiche aperte allo “Stratega Autocrate”. Tutto sembra perduto quando, nuovamente, un’epidemia nell’esercito cartaginese, dovuta alle pessime condizioni igieniche, consente a Dionisio di fare un’uscita disperata e di disperderli. Chi fugge precipitosamente in Africa, chi viene facilmente disperso ritirandosi verso ovest. Dionigi consolida di nuovo il proprio potere e riguadagna le posizioni perdute. Messina è ripopolata di Locresi, a lui fedeli e, per consolidare il controllo su quella parte dell’Isola, fonda Tindari sulla costa tirrenica. Dionisio distrugge Naxos e la sostituisce con la fondazione della vicina Taormina, ad opera di elementi siculi, che vengono così spostati dall’interno, perseguendo l’opera di miscellanea condotta con acume geopolitico davvero moderno. La guerra continua stancamente fino al 392, quando una nuova pace con Cartagine stabilisce di nuovo il confine ai fiumi Imera e Platani. Ormai Cartagine controlla stabilmente questo territorio, direttamente sulle proprie poche città, e indirettamente per mezzo degli Elimi e dei Sicani. Mozia però non viene rifondata, bensì ricostruita nella vicina Lilibeo (l’odierna Marsala) più difendibile attraverso i rifornimenti di Cartagine. Questa città diventa la base principale della provincia punica di Sicilia. Nel trattato di pace è riconosciuta a Dionisio la signoria sul resto di Sicilia, con una sorta di protettorato sullo stato-cuscinetto di Agrigento e sui centri siculi, e con un dominio ormai diretto su tutte le altre città, dove le istituzioni delle poleis sono ridotte in pratica a livello amministrativo. Degno di nota per il difensore della Sicilia è che, nel trattato di pace, Dionisio abbia preteso che, anche nella loro parte di Sicilia, i Cartaginesi si sarebbero astenuti dai sacrifici umani, vera piaga della cultura fenicia. Del resto, tranne forse l’estrema Lilibeo, tutta la provincia punica era di fatto grecizzata o parlava comunque dialetti siculi, e non punici, come testimoniato dai nomi dei luoghi, dagli usi teatrali di Segesta, e non ultimo dalle iscrizioni ritrovate.
Consolidato il dominio in Sicilia, la sua signoria su Locri è vista come una minaccia dalle città italiote, che stringono tra loro la Lega Italiota in chiave antisiracusana. Per sconfiggerli, il tiranno siracusano non si fa scrupolo di allearsi con i Lucani, con gli Illiri, con i Galli reduci dal sacco di Roma. Questa politica di espansione siciliana nel Sud-Italia, che sembra anticipare di secoli quella medievale di Ruggero II gli vale però l’accusa di “filobarbaro” e qualche dissenso persino a corte. Dopo avere sconfitto gli Italioti nel 389, però, si mostra magnanimo con loro, dividendoli da Reggio, che mirava invece ad annettere completamente. Infatti conquista poco a poco tutti i centri calabresi a sud dei due golfi di Squillace e di Lamezia attribuendoli al dominio di Locri, il suo “Arcontato Italiota”. Reggio è così isolata, prima costretta a tributo, poi obbligata a mantenere l’esercito, infine assediata, conquistata e distrutta nel 386. Sul confine settentrionale inizia ad erigere una muraglia, mai completata, per distinguere nettamente il suo regno da quello delle città italiote più settentrionali, che al momento non lo interessavano, ma dei quali e degli Italici si limitava ad essere arbitro. Si ingerisce nelle vicende della Grecia continentale, con l’aiuto degli Illiri, imponendo Alceta il Molosso sul trono d’Epiro, fonda una colonia sulle coste dell’Albania, poi un’altra sull’isola dalmata di Lissa, questa per tenere a bada i pirati. E poi, ancora più su, fonda Ancona, e persino Adria, stringendo un’alleanza con i Galli e diventando con lui, così i Sicelioti, padroni assoluti del traffico dell’Adriatico.
La Sicilia di Dionisio il Vecchio è quindi definitivamente uscita dai confini dell’isola per proiettarsi in una sorta di impero talassocratico, che non ebbe però mai il tempo di consolidare. Mentre negli anni ‘80 sullo Ionio e sull’Adriatico riusciva a portare avanti quanto meno una politica egemonica e coloniaria, sul Tirreno si limitava a opere di rapina o saccheggio a danno degli Etruschi, alleati strutturali di Cartagine, come con il porto di Pirgi (Cerveteri) nel 384. Anche la piccola ma crescente Repubblica di Roma è vista con (giusta) ostilità da parte di Siracusa, come potenziale concorrente. Si dice che l’impero mediterraneo di Dionisio non ebbe il tempo di consolidarsi, a differenza di quanto sarebbe poi accaduto ai Romani, perché la base di questo impero, la Sicilia, non era tutta saldamente in mano siceliota. Finché sopravviveva la provincia punica, Dionisio non poteva mai sentirsi sicuro. Prima o poi, riarmandosi, la guerra con Cartagine doveva riprendere, e infatti riprese di lì a poco.
Cartagine questa volta pensa di accerchiare la Sicilia alleandosi con gli Italioti. La risposta siracusana non si fa attendere. Dionisio nel 379 sottomette Crotone, la più importante città dello schieramento italiota, portando ancora più a nord i confini del suo dominio, ma il controllo del Tirreno è ora inibito dalla presenza cartaginese. Celebre ma non risolutiva la battaglia di Monte Cronio, nei pressi di Terme, dove muore Leptine, fratello di Dionisio, da sempre validissimo generale ed ammiraglio al suo fianco. Le due forze erano invero in parità e devono nuovamente arrivare ad una pace non risolutiva (374). La Sicilia greca si stava, in realtà, soltanto logorando lentamente in una guerra impossibile per cacciare i Punici dall’Isola. Il confine è sempre lo stesso, sui due fiumi Platani e Imera settentrionale, ma Dionisio deve pagare riparazioni di guerra. Akragas resta sempre come stato-cuscinetto neutrale tra le due potenze.
Finché vive (367) il suo dominio interno è comunque fuori discussione; l’Isola di Ortigia, privata dei suoi abitanti, era stata trasformata in una grande reggia-fortezza a disposizione del tiranno. Un tentativo di Platone di trasformare lo stato siceliota nella repubblica ideale quasi costa la vita al grande filosofo che è costretto a riparare in Grecia. Chiamato più tardi ben due volte da Dionisio il Giovane il tentativo non avrebbe avuto migliore successo. La morte sopraggiunge proprio mentre il vecchio tiranno tenta una quarta, inutile, guerra contro Cartagine con un assedio a Lilibeo, durante il quale è colpito da un malore fatale.
Dionisio II il Giovane, figlio del predecessore e della moglie locrese, Doride, salito al potere con una formale acclamazione dal popolo siracusano riunito in assemblea, si mostra da subito debole e inadeguato. In un certo senso cerca di continuare la politica del padre ma con minore decisione. Rinuncia ad attaccare Cartagine, con la quale addiviene ad una pace duratura nel 358. Richiama lo storico Filisto, che il padre aveva esiliato perché non condivideva le sue alleanze con i barbari. Continua, come il padre, a sostenere Sparta, contro l’ormai egemone Tebe. Continua, come il padre, la sua politica egemonica in Italia e nell’Adriatico, ma questa volta alleandosi più saldamente con gli Italioti, e soprattutto con Taranto, poiché questi cominciano a sentirsi schiacciati dalla pressione degli Italici dell’interno. E, infine, appoggia senza successo i Latini contro Roma, nelle Guerra Latina, comprendendo ancor più chiaramente di suo padre il pericolo all’orizzonte. Roma, infatti, sconfitti i Sanniti, dilagherà nell’Italia centrale ormai come potenza regionale.
Dopo una decina d’anni di governo malfermo, pieno di congiure di palazzo e di fazioni, è cacciato da Siracusa da Dione, cognato di Dionisio il Vecchio, e deve riparare a Locri, nei domini italioti in Magna Grecia. Solo l’isola di Ortigia resta a resistere per qualche tempo con i suoi fedeli, sotto il comando del figlio Apollocrate. Dione ora controlla solo la Sicilia, mentre l’Italia resta a Dionigi il Giovane. Questo nuovo tiranno oscilla tra tentativi di condividere il potere con il popolo (come la breve condivisione con altri 24 strateghi), tentazioni di sperimentazioni costituzionali aristocratiche sul modello platonico, e, infine, una prassi di reale dispotismo, tale a un certo punto da fare rimpiangere i Dionisi.
Sul “trono” di Siracusa, sconvolta dalla guerra civile, si succedono altri tiranni, mentre lo Stato va in frantumi: prima l’ateniese Callippo, che aveva seguito Dione nel tentativo di creare questa repubblica ideale, poi due figli del “Vecchio” e della siracusana Aristomache: dapprima Ipparino, e poi Niseo. I tentativi, sotto Dione e i suoi successori, di instaurare la “repubblica ideale” platonica, falliscono tutti miseramente, insieme a progetti ideologici stravaganti, quali quello ad esempio di abolire la proprietà privata. Questi tentativi tuttavia dimostrano, al di là della loro inapplicabilità pratica, la permeabilità dell’ambiente siracusano, non solo di Dionisio il Giovane, rispetto all’ideologia di una repubblica “aristocratica” nel senso etimologico del termine (cioè il “governo dei migliori”). Nella realtà è solo un succedersi di tiranni, sistematicamente assassinati l’uno dietro l’altro, e di lotte tra i loro eserciti di mercenari.
Quando Dionisio II riesce a ritornare a Siracusa, solo nel 346, il suo dominio è comunque effimero. Gli aristocratici chiedono aiuto a un generale di Dione, Iceta, che in pratica era diventato tiranno di Lentini. Ma il ritorno in forze dei Cartaginesi, con il generale Annone, i quali stavano approfittando del caos in cui era caduto lo stato dei Dionisi, fece propendere questi e lo stesso Iceta per chiedere aiuto alla vecchia madrepatria, Corinto, la quale invia l’anziano generale Timoleonte. Dionisio si trova quindi assediato a Ortigia, mentre anche il dominio italiota va in rovina e la sua famiglia a Locri è sterminata. Infine, in cambio della resa, gli si fa salva la vita, ma è costretto all’esilio a Corinto dove il povero Dionisio “il Giovane” chiuderà la sua esistenza come modesto maestro elementare.
- 5 – La Repubblica di Timoleonte e il Regno Siceliota di Agatocle
A Siracusa (344) è quindi instaurata la III repubblica (dopo quella aristocratica e la “politeia”) sotto il buon governo di Timoleonte. Questi abbandona definitivamente l’imperialismo in Italia, mentre trasforma lo Stato Siciliano in una confederazione di città-stato (la “Symmachìa Siceliota”), riportando ordine dopo il caos del decennio precedente. Il Governo repubblicano di Timoleonte è un periodo breve (344-336) ma intenso di splendore economico, politico e culturale. Le monete siceliote prendono a usare stabilmente l’uso della Trinacria, ormai simbolo politico della Sicilia. Le fortificazioni di Ortigia, emblema dell’oppressione tirannica, sono abbattute; i profughi politici sono riammessi a Siracusa. Ma queste riforme sarebbero avvenute nel tempo; intanto incombeva la minaccia cartaginese, aggravata dal fatto che Iceta da Lentini aveva fatto con loro un accordo “traditore”, finalizzato a distruggere Siracusa. All’inizio solo Taormina e Adrano gli aprono le porte, mentre la flotta Siracusana sbarca nel porto di Siracusa, mettendo sotto assedio Ortigia, ormai orfana dei Dionisi. Timoleonte fa base su Catania, poi espugna Messina, quando, improvvisamente, temendo un tradimento di Iceta, i Cartaginesi si ritirano spontaneamente nel loro storico dominio. Diventa così più facile per Timoleonte riportare l’ordine nella Sicilia greca. Sempre più città e comunità indigene entrano nella Symmachìa siciliana, persino la sicana Entella, in area punica
Sconfitti i Cartaginesi al fiume Crimiso, non ben identificato dal punto di vista geografico (341), e quindi ricacciati nella loro provincia al di là dei fiumi Platani e Imera, si volge verso la giungla di riottosi tiranelli, compreso il citato Iceta, riconducendo tutte le città-stato siceliote dentro il nuovo stato confederale, tuttavia rispettoso delle autonomie municipali. Con Cartagine arriva quindi ad una nuova pace duratura (339) mantenendo lo statu quo nei confini ed impedendone ogni ingerenza sulla politica siceliota. Dà a Siracusa infine una costituzione moderata: un’Ecclesìa, assemblea di tutti i cittadini, e una Bulè, consiglio di 600 ricchi possidenti sono gli organi più importanti; il Presidente elettivo annuale della Bulè, assistito da Strateghi, è capo del Governo, ma il ruolo di Capo dello Stato (magistrato eponimo) è affidato a un sacerdote di Zeus Olimpio, sorteggiato tra una terna di nomi eletti dall’Ecclesìa. Si fa promotore, infine, di un nuovo bando di colonizzazione ellenica della Sicilia, per ripopolare le città svuotate dalle guerre civili. Decine di migliaia di greci, molto più che secoli prima, accorrono dalla Grecia e dall’Asia minore per popolare la Sicilia, non più solo sulle coste, ma anche in insediamenti interni. Nel 337, colpito da cecità, si ritira a vita privata. Alla sua morte, nel 318, gli vengono riservati onori da Padre della Patria.
La Repubblica siracusana e la Confederazione siceliota, però, tenute insieme dalla sua autorevolezza, non sopravvivono alla sua morte, quando il partito popolare, con un colpo di stato, rovescia le istituzioni repubblicane ed affida tutto il potere ad un capo politico di umili origini, tale Agatocle (316 a.C.).
Questi, durante il colpo di stato, fa trucidare migliaia di ricchi, e altri li fa esiliare. Promette e realizza riforme sociali importanti quali la remissione dei debiti e la distribuzione delle terre. Agatocle rinnova la politica di potenza di Dionisio il Vecchio, ma su basi ancor più ambiziose. Subito dopo Siracusa, Agatocle provvede a rimuovere ogni autonomia alle altre città della Confederazione. Queste tentano di ribellarsi, ma Agatocle si accorda con il generale cartaginese Amilcare (uno dei tanti con questo nome), facendosi riconoscere unico signore di tutta la Sicilia a est della lineta Platani-Imera. Ma i Cartaginesi disconoscono l’accordo, muovono guerra ad Agatocle, rompono l’unità dei Sicelioti alleandosi con alcune città ribelli.
In poche parole, contro Cartagine la lotta non è mai risolutiva. Assediato a Siracusa per terra e per mare, decide di portare la guerra in Africa (310), dove brucia la propria flotta per evitare tentazioni di fuga alla truppa. Agatocle rovescia i termini storici delle guerre puniche siciliane: se i Cartaginesi possono permettersi di assediare Siracusa, lui può permettersi di assediare Cartagine; se i Cartaginesi possono allearsi con altre città siciliane contro Siracusa, lui può cercare l’alleanza di popoli africani e libici contro Cartagine. Questa richiama in patria la truppa, e Agatocle ottiene alcune vittorie, ma capisce di avere bisogno di nuove forze per poter prevalere definitivamente. Purtroppo fallirono i tentativi di alleanza con il governatore tolemaico della Cirenaica, Ofella, ma non per questo demorde. Nel 308 occupa Utica, ma è costretto a tornare in Sicilia dove le cose non vanno per il meglio, lasciando il comando dell’esercito africano al figlio Arcàgato (307). Qui trova una situazione molto deteriorata: Akragas si è “messa in proprio”, mettendosi a capo di una lega di città siceliote, per combattere contemporaneamente punici e siracusani. Il ritorno di Agatocle ribalta la situazione e mentre i Cartaginesi sono spinti sempre più a ovest, perdendo persino Terme, il leader agrigentino Xenodico è sconfitto, e con lui il sogno di sostituire Siracusa. Anche gli oppositori interni, che avevano rialzato la testa in sua assenza, sono ridotti al silenzio. Fallisce, invece, l’assedio di Cartagine, per l’inesperienza di Arcàgato. Un nuovo sbarco di Agatocle in Africa non riesce a ribaltare la situazione: è un disastro, il “tiranno” fugge su una sola nave, mentre il nemico sbaraglia ciò che resta delle truppe siciliane, e anche il figlio di Agatocle trova la morte. Alla fine si tornò allo statu quo con una nuova pace, in cui Siracusa cedeva le città occidentali occupate (fino a Segesta), ma ora anche Akragas entra a far parte del dominio siceliota (306).
Sul modello delle monarchie ellenistiche a lui contemporanee, anche la Sicilia cessa infine di essere una “Confederazione” e diventa quindi una vera e propria monarchia (305). Agatocle cinge il diadema di “basileus”, dando vita, per la prima volta nella storia, al Regno di Sicilia. Nella sostanza non cambia molto. L’autonomia delle singole città non viene meno del tutto, e Agatocle, unico monarca ellenistico, mantiene alcune magistrature elettive e un’assemblea popolare nella capitale.
Pacificata la Sicilia, e proclamato il Regno, Agatocle si volge ora verso l’Italia e verso gli altri regni ellenistici. Sposa Teossena, una figliastra di Tolomeo I d’Egitto, imparentandosi così con una delle più potenti dinastie del tempo. Quanto all’Italia, riprende il programma espansionistico di Dionisio il Vecchio, e questa volta il dominio siceliota è esteso a quasi tutta la Calabria. Le città Italiote superstiti, non ancora cadute sotto il giogo romano (come era avvenuto a quelle campane), pressata da Lucani, Bruzzi, Iapigi, si mettono sotto la protezione del potente sovrano siciliano, la cui flotta, stando a Diodoro Siculo, avrebbe superato le 200 navi, completamente equipaggiate. Il Regno di Agatocle è un regno vero, con tanto di sistema tributario accentrato che consentiva al sovrano la sua politica di potenza, anche se forse non ebbe il tempo di consolidare una vera e propria dinastia.
Nel 298 conquista Corcira (Corfù) e forse Leucade. La prima è data in dote alla figlia che va in sposa a Pirro, re dell’Epiro. Nel 297 conquista Crotone. Nel 293 stronca la resistenza dei Bruzzi. Roma non osa intervenire nell’Italia meridionale finché c’è il potente regno siciliano ad impedirlo. Anche se, va detto, la guerriglia degli Italici contro i Sicelioti e i loro alleati Italioti durerà per tutto il regno di Agatocle. Nel 291 rovescia le alleanze in Grecia: la figlia Lanassa si separa da Pirro, sposa il re di Macedonia, Demetrio Poliorcete, al quale porta Corfù in dote, e con il quale la Sicilia stipula un trattato di alleanza.
Sentendosi abbastanza sicuro in Italia e nell’Egeo, il fondatore del Regno di Sicilia, di quel Regno di Sicilia cui si sarebbero richiamati dopo molti secoli sovrani musulmani e cristiani a giustificare il rango regale dell’Isola, decide che è ora di riprendere la “crociata” contro i Cartaginesi, nell’eterno tentativo di cacciarli dall’Isola. Medita un nuovo sbarco in Africa, questa volta appoggiato dalla sua potente flotta, per impedire i rifornimenti alla città nemica. Chiama a raccolta tutti i Greci d’Occidente, Siciliani e Italiani. Ma, colpito da malattia nel 289, è costretto a fermarsi e a pensare alla successione.
Ciò che non riesce ad Agatocle è di istituire una stabile dinastia in Sicilia. Avendo perso il figlio Arcàgato nella campagna d’Africa chiede al figlio di questi, anche lui di nome Arcàagato che al momento comandava le truppe, di cedere il comando allo zio Agatocle il Giovane, altro figlio di Agatocle che si era distinto nelle guerre in Italia. Convoca l’Ecclesia, che non era mai stata sciolta, anche se con funzioni simboliche, e fa acclamare re appunto Agatocle il Giovane. Il nipote, tuttavia, non accetta le disposizioni dell’Assemblea e del vecchio nonno, e fa uccidere lo zio. Il vecchio monarca, sconcertato, lo sconfessa e nel suo testamento restituisce, alla sua morte, la sovranità al Popolo, proclamando nuovamente la Repubblica. Nessun altro statista della Sicilia greca sarebbe mai stato come lui; dopo di lui, iniziò un declino senza fine che avrebbe portato alla fine della antica Sicilia indipendente. Il III secolo a.C., ai due estremi, vede all’inizio la Sicilia greca al suo massimo di splendore e potenza, con un re Agatocle appena insediato e ora vittorioso in Italia, e alla fine il silenzio tombale della pax romana con la quale la Sicilia sembra uscire definitivamente dalla storia che conta. E tutto questo crollo in meno di cento anni.
- 6 – Convulsioni politiche, crisi e invasioni
Alla sua morte (289) si instaura quindi una debole IV Repubblica, dilaniata da lotte intestine. I mercenari campani di Agatocle, detti “Mamertini”, dopo qualche anno abbandonano la città, si danno al saccheggio di Camarina e Gela, per poi impossessarsi di Messina, da loro ribattezzata “Mamertina” (anche questo nome non avrà successo), e creando uno stato banditesco, dedito alla razzia di altre regioni della Sicilia, controllate da Siracusa o dai Cartaginesi, mentre le città più vicine sono costrette al tributo. La presenza Siceliota in Italia svanisce come neve al sole, lasciando campo libero ai Romani che con la Guerra Tarantina avrebbero finito di unificare la Penisola.
Alla fragile repubblica una più modesta IV Tirannia (con tale Iceta, nel 281, dopo la I dei Dinomenìdi, la II dei Dionisi, e la III della prima fase del dominio di Agatocle), e infine una guerra civile (dal 280) in cui lo Stato siciliano va definitivamente in frantumi mentre in ogni città o cittadina si instaura un tiranno locale. Un tiranno di Akragas, tale Finzia, di cui sappiamo poco, distrugge Gela, e vicino fonda la città di Licata. I Cartaginesi ne approfittano per riprendere il loro programma espansionista.
L’unica mossa che riescono a fare i Sicelioti per tentare una pacificazione è quella di invitare in Sicilia Pirro, re dell’Epiro, allora fresco delle difficili vittorie sui Romani in Italia meridionale.
Nel 278 Pirro è in Sicilia, sbaraglia i Punici che si rinserrano al Lilibeo e, nella Palermo appena strappata loro, nella stessa Palermo che secoli dopo sarebbe stata la sede del Regno, Pirro raccoglie l’eredità di Agatocle e si incorona Re di Sicilia. Anche i Mamertini si chiudono dentro Messina cessando le loro scorrerie. Padrone di tutta l’Isola, i Cartaginesi gli offrono la pace chiedendo in cambio il possesso della sola Lilibeo. Pirro sa di non potersi fidare mantenendo questa spina nel fianco, e cerca inutilmente di espugnarla. Lo sforzo finanziario della guerra, però, stanca presto i Siciliani che lo avevano acclamato come liberatore. Una volta eliminato il problema mamertino e cartaginese, desideravano solo la pace, e gli oppositori a Pirro rialzano la testa.
Così il Regno di Pirro dura poco. I rovesci in Italia meridionale unitamente ai disordini qua e là in Sicilia lo costringono ad abbandonare la Sicilia già nel 276, lasciando dietro di sé il vuoto politico. A Siracusa riesce a prendere il potere un altro uomo forte, assai illuminato e abile diplomatico, Ierone II, il quale, in qualche anno, riesce a mettere insieme di nuovo il Regno di Sicilia (incoronato nel 269). Ma nel frattempo per la Sicilia è cambiato tutto da un punto di vista geopolitico.
La sconfitta di Pirro ha portato la Confederazione italica, guidata dai Romani, ad impossessarsi di tutta l’Italia meridionale, fino a Reggio. Per la Sicilia l’espansione da quel lato è ormai preclusa per la minacciosa presenza romana. Ierone II, sconfitti i Mamertini di Messina, sigla un trattato proprio con Roma. Da ovest, al fuggire di Pirro, i Cartaginesi, città dopo città hanno costruito un loro dominio ormai organizzato come quello di una vera e propria provincia. A sud hanno conquistato Agrigento, Licata e Camarina, insidiando il territorio ibleo oltre Noto. A nord non hanno incontrato resistenza arrivando a porre un presidio a Messina. A sud di Nebrodi e dell’Alcantara, ad est del Salso e a nord di Noto, ciò che resta del piccolo Regno siceliota sotto Ierone II.
Ierone II capisce subito che può sopravvivere ormai solo in equilibrio tra Roma e Cartagine, mentre è escluso che possa espandersi a spese di una delle due potenze.
- 7 – Le Guerre Puniche e la conquista romana della Sicilia
Ma i fatti storici camminano più veloci dei tentativi del fragile Stato siceliota di mantenersi indipendente. I Mamertini cacciano la guarnigione cartaginese di Messina, che allora controllava la città, e chiedono aiuto a Roma. Cartagine, da sempre alleata di questa Repubblica, chiede il rispetto dei trattati e di rimanere al di là dello Stretto. Roma sceglie di sfidare Cartagine (264 a.C): è l’inizio della I Guerra punica. Una guerra lunga, durata più di vent’anni, che avrebbe trasformato Roma in una potenza navale (ricordiamo, dopo una prima sconfitta alle Eolie, nel 260, le vittorie navali di Milazzo, nel 259 e Capo Ecnomo, nel 256) e che avrebbe seminato in Sicilia occidentale distruzione e morte (come nel saccheggio di Agrigento del 261). Roma trova per strada tre piccoli alleati, ai confini del Regno di Sicilia (Messina, Noto e Taormina) che sarebbero diventati suoi “soci”. La Sicilia è il principale, ma non unico, teatro di guerra, poiché Roma con Attilio Regolo porta la guerra in Africa, secondo quella che era stata la strategia di Agatocle; ma questa spedizione non sarà più fortunata della precedente. La Sicilia di Ierone II, dopo una fase iniziale in cui è forzosamente alleata dei Cartaginesi e sconfitta dai Romani, sceglie una difficile neutralità un po’ più vicina ai Romani che ai nemici di sempre. Alla fine, come è noto, vincono i Romani, dopo la decisiva battaglia delle Egadi (241). Nello stesso anno Ierone II associa al trono il figlio Gelone (II), dando dimostrazione di voler creare una dinastia che, anche nei nomi, si riallacci alla migliore tradizione siceliota.
I Cartaginesi abbandonano la provincia siciliana (comprese Malta e Pantelleria). Un magistrato romano siede ora a Lilibeo, dove prima doveva esserci un qualche governatore punico, di cui però praticamente nulla sappiamo. Ereditando un’amministrazione provinciale, ne fanno la prima provincia dell’Impero Romano. Tranne le tre piccole città alleate, le altre sono divise tra decumane (tributarie) e libere (immuni) secondo il principio romano del “divide et impera”, ma tutte sottoposte al predominio della Repubblica Romana.
La Sicilia siracusana, però, riesce al momento a salvare la propria indipendenza. Ierone II diventa un re satellite della Repubblica romana, comprendendo bene che la sua sorte era legata ormai a questa fedeltà. Il suo piccolo regno comprendeva ormai il solo territorio dell’odierna provincia di Siracusa, Noto esclusa, e una fascia interna dell’attuale calatino ed ennese, fino alla roccaforte di Enna inclusa; la parte settentrionale dello stato, invece, da Agira e Catania in poi, era andata persa nella prima parte del conflitto, come prezzo per la breve e sfortunata alleanza con Cartagine. Durante il suo lungo regno si dedica a migliorare, per sé e per lo Stato, i proventi del commercio agricolo; perfeziona il sistema tributario nel suo Regno, imponendo a tutti i sudditi la “decima” sul raccolto, oltre a dazi commerciali per le navi in transito. Simbolo di questa opulenza, priva però di potenza politica, è forse la “Syracosia”, gigantesca nave da trasporto e militare, quasi città galleggiante, costruita con gl’ingegni di Archìa di Corinto e del grande Archimede. Sua opera è anche una riforma dell’antichissimo codice di leggi di Diocle. Altro elemento notevole che, come e più di Agatocle, non abolisce le assemble cittadine, i magistrati municipali, mostrandosi davvero – se così può dirsi – l’unico monarca “costituzionale” tra i despoti ellenistici.
Non deroga mai da questa fedeltà a Roma, né durante la crisi che porterà la Repubblica a strappare Sardegna e Corsica a Cartagine, né allo scoppio della II Guerra Punica (218). La monarchia siciliana resterà sempre fedele, anche quando Annibale dilagherà nell’Italia meridionale.
Poco dopo la battaglia di Canne (216), però, muore Ierone II (nel 215) e i Siracusani rovesciano le alleanze, comprendendo che l’alleanza con Roma, prima o poi, avrebbe significato la perdita dell’indipendenza. A Ierone II succede brevemente il nipote Ieronimo, poiché il figlio, Gelone II, filocartaginese secondo lo storico Livio, era rimasto ucciso un anno prima che morisse il padre in una rivolta popolare. Ieronimo è però assassinato a Leontini in una congiura filoromana; dopo di lui è instaurata la Repubblica, la V nella storia dello stato siceliota, per continuare la guerra contro i Romani. I Cartaginesi mandano rinforzi sbarcando in Sicilia e occupando Akragas, ormai ribattezzata Agrigentum. Roma intuisce il pericolo e manda il console Marcello sul nuovo fronte. Il Regno è indifendibile, c’è troppa disparità di forze. Abbandonate tutte le città e l’entroterra alle vendette romane, la Repubblica tenta di difendere almeno la capitale, Siracusa, in un lungo assedio durato due anni. Una rivolta antiromana a Enna è schiacciata nel sangue.
Siracusa resiste eroicamente, anche grazie alle ingegnose macchine da guerra di Archimede, contro quella che era la più grande potenza militare del tempo. Alla fine però è presa (212), Archimede – per errore – ucciso. La guerra si avviava a finire.
Nel 210 gli ultimi cartaginesi abbandonano l’agrigentino. Nel 201 la II Guerra punica si sarebbe conclusa. Tutta la Sicilia, così, diventava Provincia Romana. È la fine dello Stato Siceliota indipendente. La Sicilia dovrà attendere altri mille anni circa per tornare protagonista attiva della propria storia.
Cronologia politica (con riferimento principale a Siracusa):
734 a.C. Fondazione di Naxos (Nasso)
733 a.C. Fondazione di Siracusa
733-485 a.C. I Repubblica (aristocratica)
485-465 a.C. I Tirannide (Dinomenìdi)
485-478 Gelone
478-467 Ierone I
467-465 Trasibulo
465-405 a.C. II Repubblica (politeia) [459-450 Lega Sicula di Ducezio]
405-344 a.C. II Tirannide (Dionisi)
405-367 Dionisio I il Vecchio
367-357 Dioniso II il Giovane
357-354 Dione
354-353 Callippo
353-351 Ipparino
351-346 Niseo
346-344 Dionisio II il Giovane (di nuovo)
344-316 a.C. III Repubblica (di Timoleonte)
316-305 a.C. III Tirannide (di Agatocle)
305-289 a.C. I Regno Siceliota (di Agatocle)
289-281 a.C. IV Repubblica
281-280 a.C. IV Tirannide (di Iceta)
280-278 a.C. Guerra civile
278-276 a.C. II Regno Siceliota (di Pirro d’Epiro)
276-269 a.C. V Tirannide (di Ierone II)
269-214 a.C. III Regno Siceliota [264-241 I Guerra punica e conquista Romana della Sicilia centro-occidentale]
269-215 Ierone II (dal 241 al 216 associato Gelone II)
215-214 Ieronimo
214-212 a.C. V Repubblica [218-201 II Guerra punica]
210 a.C. Fine delle ostilità in Sicilia, ormai interamente provincia romana
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