Lo Statuto è una cosa troppo importante per affidarlo ai costituzionalisti
Lo Statuto è una cosa troppo importante per affidarlo ai “tecnici della Costituzione”.
I fatti: Apprendiamo che il fior fiore dei costituzionalisti siciliani (qua la fonte) avrebbe “riscritto lo Statuto” qualche anno fa (2017 per l’esattezza, mi era sfuggito) per adeguarlo ai tempi, benedicente l’ex Presidente Ardizzone, che non è stato esattamente un campione della difesa delle prerogative statutarie.
Leggo dalla nostra fonte:
- Lo Statuto va “attualizzato”, facendo saltare non solo l’Alta Corte, ma addirittura il CGA, che è un organismo pienamente funzionante (e, penso, quindi, avocando il secondo grado di giudizio delle cause amministrative a Roma, nel segno del centralismo);
- Abolire il simul stabunt simul cadent (cioè il principio di far decadere l’ARS se il Presidente non ha più maggioranza; su questo, quasi quasi…, visto che ha funzionato in modo distorto…);
- Dare non meglio specificate funzioni nel settore delle relazioni internazionali e sovranazionali.
Altro non si sa.
Beninteso, non ho alcuna voglia di litigare con il meglio dell’intellighenzia costituzionalista siciliana, né minimamente sminuire il loro valore scientifico, che è fuori di dubbio. Ho personalmente un buon rapporto con Giuseppe Verde, e non vorrei essere malinteso.
Il punto è però un altro. Lo Statuto non è un documento puramente giuridico. Esso è essenzialmente un punto di equilibrio politico tra una Nazione che ha perso la propria statualità illegittimamente (vedi qua), e che ha trovato nello Statuto “Confederale” un modo di salvare il salvabile di quella cultura costituzionale plurisecolare di cui dispone la Sicilia e che è sconosciuta ad altre parti d’Italia (vedi qua).
Ad esempio, il principio di “trovare in Sicilia ogni ordine e grado di giustizia” (per venire al primo, preoccupante, punto di cui sopra) è una costante della cultura politica siciliana per lo meno dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente in Sicilia sino ai giorni nostri. Il Regno di Sicilia, il Vespro, le Rivoluzioni Ottocentesche, la proposta del Consiglio Straordinario di Stato nel 1860, lo Statuto del 1946, si trovano tutti su questa stessa lunghezza d’onda.
Il principio di avere una “giustizia siciliana”, sia pure inquadrata nella Magistratura dello Stato italiano, è una di quelle costanti della nostra cultura istituzionale che non si sarebbe dovuta toccare a cuor leggero. Una costante che ha tutt’oggi una sua funzionalità, anche – mi si lasci insistere – in tema di Alta Corte, come dimostrato dal fallimento storico della giurisprudenza della Consulta, troppo sbilanciata a favore del centralismo e quindi inadeguata a gestire una Autonomia eccezionale e confederale come quella siciliana. Del resto il “sacro principio” dell’Unità della giurisprudenza costituzionale fa un po’ acqua: superato dall’alto in quanto comunque i giudicati della Corte UE schiacciano qualunque decisione della nostra Consulta, superabile, se si definisse con chiarezza (secondo me è già chiarissimo) lo spazio di competenza speciale nel quale la Corte potrebbe operare come “sezione staccata” del massimo consesso. Ma non ci giriamo intorno. Il problema è solo apparentemente giuridico; esso è politico, lasciatemelo ripetere.
La debolezza politica e istituzionale della Sicilia ha toccato il fondo in questi anni, e le uscite del Ministro Boccia che si permette di dire che determinati istituti, persino se confortati da sentenze positive della Consulta, “non stanno né in cielo né in terra”, dovrebbe portare a più miti consigli nel toccare un punto di equilibrio conquistato in un momento di forza, proprio ora che siamo nel ventre dell’onda. I patti che ne uscirebbero fuori sarebbero certamente “patti leonini”, da cui la Sicilia ne uscirebbe massacrata, come negli storici accordi siglati dal Governo Crocetta, e questo al di là delle ottime intenzioni – su questo non dubito – dei valenti costituzionalisti.
Il problema non è però di merito, di questa o quella istituzione specifica. Potremmo essere anche d’accordo. Il problema è di metodo. Gli specialisti del diritto costituzionale, fuori dal loro ambito scientifico, vanno usati (mi si passi il termine) per la loro esperienza, ma il timone non può essere loro affidato. Perché? Perché vedono le cose da un campo visivo molto ristretto. Vanno magari in grande profondità, ma non vedono che il paradigma nel quale si muovono è oggetto di una scelta politica che potrebbe essere diversa.
Se, al contrario, la politica siciliana, facesse le sue grandi scelte con una vera svolta autonomista, allora li si potrebbe interpellare su questo o quell’istituto per potenziare scelte che sono prese nella sede più opportuna, il Parlamento Siciliano.
Mi chiedo, e chiedo idealmente ai colleghi costituzionalisti: se in Assemblea ci fosse una maggioranza indipendentista che vi chiedesse un lavoro di tipo diverso, nel senso della conquista della massima sovranità compatibile con la permanenza nello Stato italiano, non dareste forse il contributo? Certo che lo fareste, ma sarebbe in quel caso molto diverso da quello che state dando oggi. A ognuno il suo mestiere dunque. Noi siamo studiosi, cari colleghi, se vogliamo fare politica, cambiamo giacca…
E il diritto costituzionale non è il solo ambito in cui temo la “tecnocrazia”. Tutti conoscono l’antico detto secondo cui “la guerra è una cosa troppo importante per lasciarla ai generali”. Questo detto si può applicare a molti ambiti, anche a quello mio, dell’Economia aziendale, perché no?
Due esempi: le politiche linguistiche e l’insegnamento della storia di Sicilia nelle scuole. Abbiamo grandissimi storici e linguisti, ma sono da sempre inseriti in un contesto “nazionale” italiano che li porta a distorsioni imperdonabili. Abbiamo un gigante della storiografia contemporanea, Orazio Cancila, e un grande linguista come il prof. Ruffino. Ma se lasciamo fare a loro in tutto e per tutto, racconteranno ai nostri ragazzi che il Sicilianismo è “retrogrado” tout court (nella storia, occultando l’anelito liberatorio che invece è stato parimenti presente nel nazionalismo siciliano) e che la lingua siciliana “non esiste” (nella lingua, perché la lingua siciliana è politicamente scorretta in uno stato italiano unitario, anche se morfo-sintatticamente ha una sua autonomia).
Ci sarà un motivo se nel 1944, quando lo Stato passò tutta l’amministrazione all’Alto Commissario in previsione di devolverla poi a un ente regione (cosa che poi clamorosamente non farà nonostante un decreto presidenziale in tal senso, abrogato giurisprudenzialmente dalla Corte Costituzionale), oltre alla Difesa, sarà proprio l’Università che resterà saldamente nelle mani del Governo italiano. L’Università è il luogo del pensiero. È autonoma (per fortuna), ma sino a un certo punto. Siamo tutti cresciuti in una “Università italiana”, e questo fa di noi studiosi legati a doppio filo a comunità scientifiche che non accetterebbero mai per principio una “nazionalità siciliana” e che guardano con sospetto persino una “spinta regionalità”.
Lo Statuto non si modifica, se prima non si attua, questo deve essere l’obiettivo di tutti i Siciliani.
E se proprio vogliamo cambiarlo, accettate questa provocazione: eccovi un altro progetto di Statuto, questo sì blindato contro il centralismo statale.
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